Nell’anno successivo all’ormai leggendario Taxi Driver (1976) - opera seminale che intercettava il clima tumultuoso della New York degli anni Settanta restituendone un affresco sordido ed ombroso – Martin Scorsese porta nuovamente in scena la sua città natale, neutralizzandone la violenza espressa dal lungometraggio precedente e adibendola a romantico sfondo di una tormentata storia d’amore.
Nella tempesta di forze revisioniste che nello stesso decennio animavano la rivoluzione della “New Hollywood”, anche il musical, genere d’evasione per eccellenza, non poteva rimanere esente dalle influenze propagate dagli innovatori del cinema americano. Quella di Scorsese, quindi, non può essere una patinata parabola volta al lieto fine, alla restaurazione di uno status quo confortante minacciato da forze ostili. Anche il musical viene problematizzato, gli archetipi classici subiscono uno scardinamento e la certezza del trionfo da parte dei buoni sentimenti viene minata dalla cinica incursione di una brutale realtà.

Robert De Niro è chiamato a vestire gli abiti di un protagonista spogliato da qualsiasi valore positivo, in virtù di un’indole arrogante ed autoritaria. Il suo Jimmy Doyle è un eroe scevro dagli ideali e dai comportamenti che garantiscono il giusto collocamento di un individuo all’interno della società, presentando più una propensione all’aggressività e al soddisfacimento dei propri bisogni primari (donne, soldi e musica) tramite la violenza. Un temperamento la cui principale vittima è rinvenuta nella docile cantante Francine Evens, interpretata da Liza Minnelli nel suo ritorno al dramma musicale a cinque anni di distanza da Cabaret (1972), grottesco e sensuale capolavoro di Bob Fosse che segnò la sua consacrazione. La Minnelli presta corpo e voce ad una donna fragile, le cui ammalianti doti artistiche non sono sostenute da un temperamento altrettanto potente. Le estenuanti pressioni di Doyle la inducono ad assecondare ogni sua scelta, cementando le loro vite in un sodalizio umano e professionale che vedrà sempre prevalere la volontà dell’uomo. Una relazione ruvida ed instabile che, nonostante sporadici sprazzi di tenerezza, si protrae in un percorso che ne evidenzia le profonde falle e le drastiche forzature in un susseguirsi di attriti che non possono concludersi se non tramite un’esplosione finale.

Il lieto fine non può esistere nel cinema aspro ed incandescente di Martin Scorsese, o comunque non secondo i canonici stilemi. Perché sebbene la rottura della coppia ed il naufragio della relazione vengano comunemente identificati come sinonimi di un tragico epilogo, non ci può essere nulla di più appagante che assistere alla conquista della propria autodeterminazione da parte di una sensibilità oppressa. “New York, New York!” è il grido di liberazione attraverso il quale Francine Evens celebra la propria ritrovata libertà per mezzo della sua arte. Un’esternazione della ritrovata vitalità e del raggiungimento di una nuova consapevolezza di sé stessa. Un finale a suo modo dolcissimo, quindi, che avviene proprio attuando una revisione sintattica degli elementi del genere per restituire ad esso un brio differente sfruttando una forma consona al periodo di realizzazione e che rispecchiasse la poetica del suo creatore. Nel 1977, quindi, Scorsese si appropria del musical, vi applica il proprio sguardo e lo riplasma secondo i propri criteri stilistici. Il risultato è un’opera che ad oltre quarant’anni di distanza mantiene una freschezza spiazzante, perennemente attuale e teneramente malinconica.