Il Cardinale (1963) appartiene alla seconda fase della carriera hollywoodiana di Otto Preminger, in cui il regista coltiva la sua reputazione di auteur grazie commenti dei critici dei Cahiers. Per Jacques Rivette, il cinema di Preminger è l’esemplificazione stessa della mise-en-scène: “la creazione di un complesso preciso di personaggi e di ambienti, di un fascio di rapporti, di un’architettura di relazioni, mobile e come sospesa nello spazio”.  Abbandonato il genere noir con la fine del contratto con la 20th Century-Fox, a metà degli anni '50, il regista lancia la sua carriera da indipendente iconoclasta producendo blockbuster tratti da romanzi di successo che esplorano i meccanismi delle istituzioni giuridiche (Corte Marziale, 1955 e Anatomia di un omicidio, 1959), politiche (Tempesta su Washington, 1962), militari (Prima vittoria, 1965) e religiose (Exodus, 1960 e appunto Il Cardinale).

Il saggio di Rivette, “L’essentiel”, viene pubblicato dieci anni prima de Il Cardinale, ma quella “architettura di relazioni” rimane un elemento distintivo del cinema di Preminger. Nel caso de Il Cardinale, questa architettura si spinge oltre la narrazione sullo schermo che, concentrandosi sulla carriera ecclesiastica di Stephen Fermoyle (Tom Tryon) da semplice sacerdote a cardinale tra le due guerre mondiali, indaga le gerarchie della Chiesa cattolica, i rapporti tra la Chiesa romana e quella americana, la posizione del Vaticano sulla segregazione razziale e le relazioni pericolose con il Nazismo. Ma, come si chiede Rivette, siamo proprio sicuri di essere interessati alla semplice trama?

L’ “architettura di relazioni” più interessante che Preminger costruisce è quella meta-filmica, in cui disegna la transizione di Romy Schneider da dolce principessa di un impero incantato a personaggio di spessore drammatico, da una carriera controllata da una madre con evidenti legami al regime nazista ad un’indipendenza faticosamente raggiunta e capace di confrontarsi con l’abbandono del padre. Nel film di Preminger, Schneider interpreta Anne-Marie Hartmann: inizialmente seduttrice per gioco di Fermoyle, il suo personaggio e le location di Vienna con cui è associata (la gita sul Danubio, la scena del ballo) richiamano direttamente la spensieratezza e il sentimentalismo di Sissi.

Successivamente, tuttavia, durante la missione di Fermoyle per chiudere la Nunziatura in seguito all’Anschluss, ritroviamo Anne-Marie vittima della Gestapo, in una transizione che la rende la prima di diverse donne perseguitate dall’orrore nazista incarnate da Schneider, da Noi due senza domani (Le train, 1973) a Frau Marlene (Le vieux fusil, 1975) fino all’ultima interpretazione ne La signora è di passaggio (La passante du Sans Souci, 1982). La messa in scena segnala questa evoluzione contrapponendo l’insistente primissimo piano all’interno della prigione della Gestapo che sottolinea la maturità politica e attoriale alle inquadrature a figura intera che ritraggono la Schneider fasciata in eleganti abiti della prima parte.

Con il personaggio di Anne-Marie che passa dalla frivolezza iniziale all’intensità dell’epilogo, l’immagine divistica di Romy Schneider inizia a segnare il passaggio dall’amnesia storica e alle nostalgie paternaliste che il ruolo di Sissi incoraggiava ad una più matura consapevolezza di impegno artistico e sociale. Questo passaggio è simbolizzato nel film dal confronto con il padre, Wolf Albach-Retty, che recita una breve scena su diretta richiesta della figlia dopo anni di distanza. Anche questo cambio di figura genitoriale all’interno dell’architettura di relazioni cinematografiche indica un’evoluzione dell’immagine dell’attrice dai film in cui Magda rivestiva sempre un ruolo di madre dentro e fuori lo schermo, controllando i ruoli e l’immagine della figlia, ad una in cui è la stessa Romy a cercare un confronto con il proprio passato nazionale e famigliare.