Il terrore che sarebbe durato per giorni, ma forse anche di più, ebbe inizio, per quel che mi è dato sapere e narrare, con un gas sconosciuto che fuoriusciva dai tombini romani, tra rivoli gonfi di fanghiglia grigia e pioggia. Nonostante le opportune modifiche, non si può non scorgere tra le parole sovrastanti la penna geniale di Stephen King e il suo intramontabile inizio del capolavoro letterario It. Ma non si sta parlando di un nuovo film tratto dall'omonimo romanzo, ma dell'ultima fatica di Paolo Strippoli: Piove.
Dopo il successo con A Classic Horror Story, il regista torna in sala con un distopico horror dal sapore deliziosamente kinghiano. Gli elementi ci sono tutti: un male sconosciuto che sta al di sotto della città, tombini, pioggia, cappotti giallognoli insanguinati, palloncini e bambini che vedono la vita per quello che è. Non siamo a Derry, ma nella Capitale. Strani casi di violenza inaudita stanno disseminando il panico per le vie: l’immagine di una Roma amareggiata, furente e nervosa non è poi così dissimile da quella reale. Quando piove, un denso vapore si propaga dai tombini e dagli scarichi dei bagni.
Quello che non si sa è che se inalato tutte le inibizioni vengono elise, lasciando dare libero sfogo alla rabbia repressa e al sentimento d’odio. Questo non lo sa nemmeno la famiglia Morel che deve fare i conti, una volta per tutte, con il senso di colpa. Il padre (Fabrizio Rongione), con le mille preoccupazioni e i più lavori, si sobbarca i problemi dei due figli: un "regazzino" (Francesco Gheghi) che sembra avercela con il mondo intero e la figlia (Aurora Menenti) in carrozzina che di tornare alla normalità proprio non le va. Un incidente, certo evitabile, li costringe a vivere tutti sotto lo stesso tetto, senza una madre e senza più parole da dirsi. Muri invisibili li tengono separati, muri di rancore e sbagli.
Presentato ad Alice nella Città, sezione autonoma e parallela della Festa del cinema di Roma, l’opera miscela gli stilemi del genere thriller/horror con il dramma familiare, strizzando l’occhio alla poetica di Ari Aster. Suddiviso in tre atti - Evaporazione, Condensazione e Precipitazione - ha come suo punto di forza la fotografia di Cristiano Di Nicola. La macchina da presa si muove lenta e sinuosa in spazi tetri e angusti, cambiando spesso la messa a fuoco e la sua angolazione: inquadrature dall'alto, dal basso, campi lunghi, primi piani, grandangoli, dettagli, riflessi. Senza tralasciare le superbe panoramiche a schiaffo che permettono di giocare con la verticalità e l’orizzontalità delle immagini e non solo. Inoltre, in alcuni frame, sovviene alla mente la magniloquente fotografia a tinte verdi e rosse di Paolo Carnera in America Latina.
Il montaggio aiuta a immergersi maggiormente in questa giungla romana , "sembra di stare a Thoiry", mediante: dissolvenze incrociate, montaggi alternati e stacchi netti che passano da schermi - del telefono, di monitor di controllo, televisioni - al mondo reale. Strippoli, di fatto, utilizza i media per inserire nel discorso il tema dell'insoddisfazione diffusa, data da una vita in costante bilico nell'odierna società. Ed é forse a causa di questo eterno vagare senza una meta precisa che ci si sente oppressi ogni giorno dal senso di frustrazione; esplicitato solitamente sui social con sfoghi beceri, fino a quando diviene talmente irrefrenabile da sfociare in atti di pura violenza come mostrano ogni giorno i telegiornali. E chi va a rimetterci? Beh, quasi sempre le persone a noi più vicine: la famiglia. La collera fa da padrone in questa modernità dominata dai ritmi frenetici, dove nessuno ha più tempo per se stesso e nemmeno per gli altri. La conclusione sembra scontata: l'annichilimento della ragione. La follia regna.
I bambini e gli adolescenti non comprendono più gli adulti, anzi, nessuno riesce più a comprendere persona alcuna. Non si trova un punto di incontro e, la cosa più sconcertante è che non si tenta neanche di riottenerlo; a volte risulta più comodo eliminare il problema alla radice. Purtroppo è qui che si manifesta il vero problema del film. Dopo una prima parte convincente, carica di tensione, sostenuta da una buona sceneggiatura e da un sagace uso della tecnica, la storia si perde nel finale. Troppo bramoso di arrivare al dunque, passa dall’apice drammatico alla risoluzione del problema frettolosamente. Lo scontro tra padre e figlio appare troncato a metà, cadendo un po’ nella prevedibilità e nell'artificio.
Ad ogni modo, Strippoli dirige un’opera attualissima: una critica efferata sulla società contemporanea. Senza soluzioni efficaci all’orizzonte, l’acqua - che sia essa pioggia o lacrime - sembra l’unico espediente in grado di liquefare quella melma grigia-marrognola densa di furore che ricopre gli occhi. Ed è solo così che si può ri-acquisire la capacità di vedere, e apprezzare, ciò che di bello si possiede.