La storia dell'“incredibile uomo restringibile” è giustamente fra le più celebrate dell'intero cinema di fantascienza. Tratto da Tre millimetri al giorno (1956) di Richard Matheson, autore anche della sceneggiatura, il film racconta di come Scott Carey, dopo essere stato investito da una misteriosa nebbia radioattiva durante un'uscita in barca con la fidanzata, inizi lentamente, ma inesorabilmente, a rimpicciolire. Da affascinante bizzarria ad handicap sociale il passo è breve (struggente il confronto col freak, una giovane circense affetta da nanismo armonico) ma è ancora niente rispetto a quanto viene dopo, quando agli stadi più avanzati la mutazione rende le stesse mura domestiche che l'avevano sempre accolto una trappola mortale, popolata da mostri come il gatto di casa o come un ragno – per la sua prospettiva – grande come quello che un paio di anni prima aveva terrorizzato la tranquilla cittadina nel deserto di Tarantola (1955), diretto sempre da Jack Arnold.

Un “capolavoro pulp sull'angoscia di stare al mondo” (Mereghetti), Radiazioni BX: distruzione uomo è spesso considerato l'esempio più ragguardevole di quell'esistenzialismo fantascientifico anni Cinquanta che si esplica nell'estraniamento della dimensione del quotidiano e del domestico. Più ancora di L'invasione degli Ultracorpi (Don Siegel, 1956), da cui lo distingue l'assenza di infiltrati e piani di conquista, fattori scatenanti ancora isolabili per quanto profondamente innestati nell'ordine sociale, è infatti questo il film che traccia una linea diretta fra il malessere del protagonista e la sua quotidianità, fra i disagi e pericoli che affronta e la conformazione – in sé immutabile eppure progressivamente sempre più inquietante – dell'ambiente domestico. “Odiavo me stesso, la nostra casa e la mia vita grottesca con Louise” confessa la voce narrante di Carey a vicenda ormai inoltrata – bilancio tanto cupo quanto ever-relatable, condivisibile per chiunque abbia una casa e una famiglia: “A man whose fantastic story was known to virtually every man, woman and child in the civilized world” dice infatti significativamente il presentatore del tg nell'annunciare la presunta morte di Carey, reso ormai star internazionale dal suo bizzarro incidente. “E ora le notizie sportive...”

In realtà, tutto questo vale soprattutto per la prima parte del film, quando Scott sta già rimpicciolendo ma è ancora comparabile per dimensioni al mondo umano. In questa fase si hanno forme di interazione che sono malate proprio perché avvengono nella sostanziale normalità – continua a indossare i suoi vestiti anche se gli si sformano addosso, va ancora a lavoro col pensiero fisso della sua statura che diminuisce, legge il giornale in poltrona mentre gli dorme accanto acciambellato un gatto grande già quasi quanto lui. Questo rende la prima metà del film la più autenticamente spaventosa ed alienante, mentre la seconda – che pure inizia all'insegna della paura, con l'assalto del gatto ormai immenso a un uomo ridotto a vivere in una casa per bambole – si apre però anche a suggestioni differenti, nel momento in cui le dimensioni prospetticamente gigantesche ormai raggiunte dallo scantinato di Carey (barattoli, pennelli intrisi di vernice, trappole per topi, gocce d'acqua) ci riportano a quell'esperienza spettacolare di meraviglia che per Vivian Sobchack, fra  i grandi teorici del genere con Spazio e tempo nel cinema di fantascienza (1987), contraddistingue la fantascienza dall'horror: “poiché nel cinema di fantascienza l'enfasi è molto spesso posta sull'esteriorità, il nostro interesse per questo tipo di film, non concentrandosi abitualmente sul carattere interiore dei personaggi, è sovente basato sulla spettacolarità (…) la passione e l'anelito umano del cinema horror vengono sostituiti dai piaceri di una visione distaccata. La meraviglia prende il posto del terrore.”

Negli anni Settanta Arnold avrebbe tentato a lungo inutilmente di portare sullo schermo una sua versione del classico Il mondo perduto (1912) di Arthur Conan Doyle, la storia (filmata già nel 1925 e ispirazione diretta per lo script di King Kong) di una spedizione scientifica che scopre su un'isola remota l'esistenza di dinosauri ed altre gigantesche creature sottratte dall'isolamento allo scorrere del tempo. Dopo averlo già sfiorato con Il mostro della laguna nera (1954), si può dire in un certo senso che con Radiazioni BX: distruzione uomo avesse realizzato il suo sogno. Quasi più che alla fantascienza paranoica infatti, la parte del film ambientata nello scantinato fa pensare a quella – tendenzialmente molto più ottimista – delle grandi esplorazioni spaziali, o meglio ancora alla tradizione del romanzo d'avventura, con un Carey (che si autodefinisce naufrago) quasi novello Robinson, lacero e barba non fatta, costretto ad “azzerarsi” culturalmente per ripartire dalle basi fondamentali della civiltà: superare un ostacolo, procacciarsi acqua e cibo, competere coi predatori, accendere un fuoco, fabbricarsi armi di difesa.

Lungi dall'esserne la degradazione a “primitivo”, si sente nella sua ordalia l'elogio di una comprensione pratica ma non gretta del mondo circostante (bisogna combattere il ragno, ma anche imparare a non odiarlo) che assomiglia moltissimo all'umanismo tollerante tipico degli scienziati-eroi di altri film del regista, specialista del genere fra i più progressisti di sempre, e che pur essendo appunto ascrivibile alla mentalità scientifica, di questa non esibisce il cinico disincanto del tecnocrate, ma semmai lo stupore, la curiosità che muove l'uomo verso l'ignoto. Impercettibilmente, il film scivola dalla perdita di contatto col mondo conosciuto (ma anche grigio, scontato, qualunque) della prima parte, a quella che potremmo definire la “redenzione avventurosa” di quel mondo nella seconda, che ancora proprio nella casa, fra i suoi oggetti quotidiani restituiti a una dimensione di scoperta e applicazione di pensiero, ambienta un vero e proprio percorso di riappropriazione dell'humanitas, culminante in un finale del pari scientista e misticheggiante in cui Carey, riconosciuta come l'uomo del Rinascimento la vicinanza fra l'incommensurabilmente grande e l'incommensurabilmente piccolo, ed avendo concluso con Protagora che “la mente umana è misura di tutte le cose”, sparisce nel suo giardino, si annulla in un atto di pacifico mutuo riconoscimento, fondendosi letteralmente con l'universo.