Alla sua seconda regia negli USA dopo Furia (1936), Fritz Lang realizza un film che – inserito nella cosiddetta trilogia sociale che completerà l’anno seguente con You and Me – analizza il rapporto vincolante, manovratore e fatale tra individuo e società. La storia di Eddie Taylor (uno dei primi ruoli da protagonista per Henry Fonda), ex detenuto che cerca di rifarsi una vita in una società che non glielo consente, permette al regista austriaco di esplorare l’eterno conflitto tra l’essere umano e il contesto sociale facendo emergere un pessimismo a tratti soffocante: il pregiudizio della collettività è a tal punto radicato nell’uomo da schiacciare l’individuo e rendergli impossibile reintegrarsi. Partendo da questa tesi, Gene Towne e Charles Graham Baker scrivono una sceneggiatura (a onor del vero non sempre verosimile) che rielabora la vicenda di Bonnie e Clyde e delinea due figure di protagonisti (accanto a Fonda troviamo Sylvia Sidney nel ruolo dell’amata Joan) che paiono avere come unica funzione narrativa quella di opporsi al nemico che li assedia, li domina, li spinge alla fuga: la società degli uomini.

Come ha messo in luce Federico Gironi di Venezia Classici durante la presentazione del film, è evidente che con Eddie Taylor il regista abbandona un certo tipo di personaggio maschile forte e determinato in cui si poteva scorgere un’eco del superomismo nietzschiano che aveva accompagnato la fase tedesca della sua filmografia, per accostarsi a un personaggio fragile e debole. Lang fece ripetere a Fonda diverse volte alcune scene proprio per minare le sue sicurezze attoriali e far sì che sullo schermo di percepissero un’insicurezza e uno scoramento che conducono gradualmente il personaggio verso l’accettazione di un destino incombente ed immutabile. Dal punto di vista psicologico, tuttavia, è soprattutto il personaggio di Joan a risultare scarsamente approfondito: la figura femminile, seppure per motivi ed intenti radicalmente opposti, appare piuttosto bidimensionale, ottusa nella sua lotta ostinata per aiutare Eddie, fino a suscitare nello spettatore odierno reazioni tutt’altro che empatiche. Questo modello femminile appare oggi datato e risulta giustificato soltanto nell’ottica di quella lotta oppositiva che rappresenta il nucleo dell’opera.

È comunque anche il rapporto tra questi due personaggi a costituire a livello tematico un elemento chiave del film nella sua categorizzazione come uno dei primi film noir della storia del cinema: il colpevole in fuga con l’amata, la donna che fa di tutto per salvarlo, un amour fou che si spinge oltre i confini della legge. È su questo che Lang costruisce poi il “suo” film, un mescolamento di generi che, sì, apre la strada al noir, ma rielabora il  melodramma, il gangster-movie, il poliziesco sulla base dell’esperienza cinematografica precedente. Se infatti l’espressionismo tedesco si può vedere chiaramente dal punto di vista artistico nella splendida fotografia di Leon Shamroy e da quello narrativo nei temi dell’oppressione sociale sull’individuo e della predestinazione verso un destino di morte, l’esperienza americana getta le basi per il noir attraverso, rispettivamente, l’esplorazione delle potenzialità dei contrasti luce/ombra (meravigliosi i fasci di luce nella nebbia del cortile del penitenziario) e l’adeguamento a una struttura narrativa più in linea con le aspettative del pubblico USA.

La meraviglia di Sono innocente sta tutta nella regia di Lang, che sa costruire una tensione drammatica nelle sequenze d’interni più che in una narrativamente superflua fuga in macchina; che sa dedicare ai suoi protagonisti dei primi piani meravigliosi; che sa rendere le luci e le ombre riflessi di uno stato psicologico (Eddie in cella prima dell’ultimo pasto) o elemento scenografico caratterizzante i personaggi (il dialogo tra Joan e il prete, con un’ombra che disegna una croce sulla sedia); che sa infondere un profondo simbolismo a gesti e angolazioni di ripresa; che sa usare anche il sonoro come strumento drammaturgico (il colloquio attraverso il vetro); che, infine, sa rendere una contrapposizione tra bene e male, tra uomo e società, meno banale e dualistica di quanto sembri. I dialoghi fanno emergere costantemente la difficoltà del protagonista di integrarsi nella società dopo essersi macchiato di una colpa (“Sarai sempre uno di noi” lo ammonisce un compagno di cella; “Mi comporterò bene, se me lo permetteranno” afferma Eddie), ma un dubbio sul fatto che alla fine il nostro destino, per quanto forse già scritto e inevitabile, sia – letteralmente – nelle nostre mani e non in quelle della società, per chi scrive, c’è.