È sull’asse New York-Boston che Scorsese ha irrimediabilmente lasciato la sua “età dell’innocenza”. Con The Departed si chiude l’impetuoso ciclo del vitalismo gangster da lui elaborato, senza contare che anche i “lupi” newyorchesi quotati in borsa mantengono i tratti iconici del criminale bulimico e girino vorticosamente attorno ad un racconto che fa di schizofrenia (godardiana) virtù.

Perché, se The Departed non è altro se non una coazione a ripetere della “Scorsese machine” fitta di temi ricorrenti incasellati in una composizione a mosaico turbolenta, Quei bravi ragazzi, misero Leone d’argento al Festival di Venezia, ma Oscar meritatissimo allo scriteriato non protagonista Pesci, è all’origine del mito. Quasi del tutto sparita la ritualità nostalgica delle “main streets” tra chiese e pistole, la parabola di ascesa e caduta dell’irlandese pentito Henry Hill ha il ritmo ossessivo di una rapsodia estetizzante che compenetra la personale visione del mondo del cineasta cinéphile con la sintassi ipercinetica di un linguaggio visivo saltellante tra ellissi e digressioni. Esasperato dai toni grotteschi e colorato dalle immagini sgargianti, il film rispolvera la lezione cinematografica di  Ejzenštejn secondo cui “il cinema, come il teatro, acquista significato solo come forma di violenza”.

Col figlio di Little Italy l’efferatezza si fa “gioco empatico” che cattura lo spettatore attraverso il montaggio compulsivo e il classicismo rock della colonna sonora. Non è solo quella delle revolverate in pieno viso e della minuziosa macellazione dei cadaveri, ma anche la spietatezza delle relazioni umane nell’imprevedibile calderone mafioso mezzo irlandese e mezzo italiano. Henry, un incontinente Ray Liotta, mastica la vita senza pensare a nulla, interessato solo ad accumulare denaro e ad appartenere ad una famiglia; che sia solo la sua o quella della cosca intera, poco importa. Meglio abbondare. Abbondanza come accumulo chirurgico di scene madri e come godimento estetico che trova l’ebbrezza dello stordimento anche nell’ordinario. Questa è la poderosa macchina-cinema di Scorsese, quasi didattica e intrisa di poesia in Hugo Cabret, spensierata, psicotropa e umoristica in Quei bravi ragazzi.

Il film è scandito dalle continue epifanie di Henry, dal primo omicidio all’incontro coi “ragazzi”, dalla prima galera (festeggiata a dovere dal compare Jimmy-De Niro) all’idillio con la futura moglie Karen. Come gli sfreccianti titoli di testa alla maniera di auto in corsa, l’ “inno alla velocità” del maestro è un immenso circolo vizioso a cui è impossibile sottrarsi proprio perché agisce in modo febbrile, come una droga. Ogni controindicazione è inopportuna poiché sarebbero davvero in pochi a non unirsi all’urlo catartico e liberatorio degli Stones: “Oh yeah, i’m gonna fade away”.

In collaborazione con Mediacritica