La cosa straordinaria di Storia di un matrimonio è che “è quello che è”, come direbbero in The Irishman. Cos’è, se non ciò che appare? È una commedia drammatica post-alleniana dentro l’orizzonte newyorkese: non a caso Los Angeles è vista come una cartolina lontana, il luogo dove agli occhi del protagonista, Charlie, viene meno l’autenticità delle relazioni e si rivela la rottura forse irreversibile con la moglie, Nicole. È, ancora, una versione di Scene da un matrimonio che incrocia sprazzi di mumblecore. È il racconto di una separazione che aggiorna il “divorce movie” alla Kramer contro Kramer ai progressi del diritto di famiglia. È, come la trenodia di Martin Scorsese, un altro commiato allo spirito, ai luoghi, ai colori, agli umori della New Hollywood con i soldi di Netflix.

Ma è anche una tappa fondamentale nella carriera di Noah Baumbach (sceneggiatore sublime, d’accordo: ma che regia, che controllo della messinscena). Seguendo i battiti di una questione privata – un fallimento sentimentale come accaduto a tanti e dunque unico perché simile a nessun altro – passa così dalle stories della bizzarra famiglia ebrea dei Meyerowitz a una story che avviene while we’re young, come il titolo originale di Giovani si diventa. Una riduzione dal plurale al singolare che nasconde una verità ancor più dolorosa: due singoli che stanno uscendo dall’essere quella “unità plurale” che è determinata dal matrimonio, dall’unione, dall’amore.

La cosa straordinaria di Storia di un matrimonio sta anche nel suo essere ciò che non è. Fa piangere ma non è patetico, racconta cose ordinarie senza essere banale, non si presta mai a una lettura a senso unico. L’inizio folgorante mette in chiaro quanto la verità sia un punto di vista, oggetto di una visione parziale, qualcosa di non afferrabile da entrambe le parti. Mentre passano le immagini di un sereno ménage coniugale, con un figlio un po’ problematico a dare il senso della pienezza della vita, lei elenca tutte le cose che ama di lui e lui quelle che ama di lei. Quello che amo di Charlie, quello che amo di Nicole. Un doppio catalogo di virtù e difetti: perché, sì, ci si ama quando si amano anche i difetti dell’altro. E poi, con uno stacco, scopriamo, nello studio di un analista, i corpi ai quali appartengono quelle voci. Seduti, distanti. La tensione palpabile nel mezzo, attorno, addosso. Lei non vuole leggere il testo dedicato a lui. Quando vengono dette ad alta voce, le parole sembrano più vere.

Ecco, quell’incipit è una bugia: si stanno lasciando perché non sanno più dirsi le cose, hanno bisogno di un intermediario che, in questa fase, è assolutamente inutile. È l’inizio del dramma, lo squarcio, la disfunzione dopo dieci anni di idillio. Cos’è successo? Lui, regista teatrale, con un certo riscontro nei circuiti off, sta per entrare nel giro importante. Lei, attrice che dopo aver abbandonato Hollywood è diventata la sua musa, accetta di recitare in una serie a Los Angeles, sua città natale. Lui è preso da se stesso, lei si accorge di aver alimentato la creatività dell’altro senza pensare al proprio benessere. Questo è successo: ciò che sembrava eterno ha improvvisamente rivelato tutte le fragilità.

Storia di un matrimonio è la storia di una terapia non compiuta. Entrano in gioco gli avvocati, gli squali Laura Dern e Ray Liotta e l’economico Alan Alda (“sembri me al mio secondo matrimonio”: un’apparizione che omaggia un intero universo umoristico, come già il Charles Grodin di Giovani si diventa), il film di parola prende il sopravvento, sorretto da una sceneggiatura che non si limita al loro allestimento (il teatro non è un pigro specchio dell’autofiction ma una chiave d’interpretazione del rapporto di coppia). Eppure è un altro trucco: illudere che la commedia – e i suoi strumenti: una tirata contro la Vergine Maria, una smorfia durante l’udienza, la parafrasi del conflitto coniugale… – possa far sopportare tutto, quando le parole si svelano come una devastante iniezione di verità, sofferenza, autenticità.

Cose che ci restano addosso, mentre scorre la dolce e lancinante colonna sonora di Randy Newman: il primo monologo di Scarlett Johansson; la litigata furibonda tra Johansson e Adam Driver nel nuovo appartamento; il cancello che si chiude tra i due; Driver, sbronzo, che canta al pub; il finale prima nella stanza da letto e poi per strada; le scarpe slacciate (e poi: loro due sono clamorosi). Le parole ci sono, usiamole: è un capolavoro. Perché lo racconta per “quello che è”, l’amore. Parla di Charlie e Nicole e parla di tutti, a tutti.