Al suo secondo giorno di marcia, il Cinema Ritrovato 2020 estrae una delle carte migliori dal suo mazzo, proponendo ai suoi più agguerriti astanti – sfidare l’asfissia da mascherina in sala, va detto, non è impresa per tutti – il prodotto filmico più breve mai realizzato da Andrej Tarkovskij: si tratta di Tempo di viaggio, dialogo a due voci tra il regista e il poeta romagnolo Tonino Guerra, degna appendice di Nostalghia, per il quale i due collaborarono alla sceneggiatura.

“Mi sembra che i segni di un genere nel cinema siano sempre indici di un cinema commerciale, nel senso peggiore del termine. Per me il problema dei generi nel cinema è inammissibile, perché sono convinto che il cinema è una forma d’arte tale da poter abbracciare tutto.”

Nell’ampio novero di citazioni che Tempo di viaggio propone, l’affermazione in questione è quella che più di tutte si presta a delineare la forma del fratello minore di Nostalghia, prodotto e distribuito dalla RAI nel 1983, in contemporanea con l’uscita del penultimo film dell’autore russo. Tuttavia, i lettori e i partecipanti del Cinema Ritrovato non si facciano ingannare: l’inserimento della pellicola nella sezione “Documenti e documentari” non ne costituisce una categorizzazione stretta nel mondo documentarista, proprio a cagione di un’insofferenza del nostro verso i codici dei generi, criticati da una prospettiva che tuttavia ha poco da spartire col paradigma postmodernista. Tarkovskij non pone infatti il superamento dei confini del genere nell’ottica di una divisione temporale tra un “vecchio cinema” e una nuova vulgata postmoderna: è la sua stessa concezione dell’arte, fin dagli esordi, ad imporre il travalicamento dall’angusta dimensione del genere, i cui tratti caratteristici devono sfumare in funzione dell’universalità del contenuto. Tale proposito artistico viene esplicitato proprio in Tempo di viaggio dallo stesso regista, che vide il suo Stalker come la più compiuta realizzazione di tale intento, opponendolo ad un Solaris considerato troppo incasellato nel genere fantascientifico e quindi incapace di sovvertirne le regole.

Se l’incauto spettatore, quindi, si avvicinasse a questo oggetto ibrido pensando di andare incontro a un making of di Nostalghia o a un biopic dedicato a Tarkovskij, vedrebbe le proprie aspettative stornate, dal momento che il titolo in questione non si può racchiudere esclusivamente in una summa delle ambientazioni italiane che hanno ispirato la realizzazione del film, né in un ritratto della mente artistica del suo fautore. Certo, entrambe le dimensioni trovano il loro spazio nella pellicola, ma si ritrovano alternate senza un ordine apparente, nel solco di un montaggio che rifiuta coscientemente l’unità del tempo narrativo: si passa così, senza intermezzi di sorta, dai dettagli barocchi del rosone della cattedrale di Otranto alle riflessioni di Tarkovskij sull’arte della regia e sui suoi padri putativi, mentre alle scene d’impianto quasi neorealista girate nei borghi del Sud Italia si susseguono le malinconie dell’autore verso la campagna russa, che sembrano presagire il suo futuro esilio dall’URSS. A sancire l’inizio e la conclusione dell’opera, il balcone della casa di Guerra (quasi a simboleggiare un sipario) e la declamazione di un componimento d’occasione: quest’ultimo, letto rigorosamente in dialetto romagnolo, dal momento che – come afferma il poeta – l’arte è gelosa e l’artista non dovrebbe accettare traduzioni poetiche.

La sensazione d’insieme che se ne ricava è quella di un’atmosfera irreale, in cui ricordi, considerazioni e suggestioni si affastellano in un tempo che sembra perennemente sospeso, come se tutto ciò che stiamo vedendo fosse solo il frutto di un’allucinazione estiva. Riguardo le idee germinali che genereranno Nostalghia, in Tempo di viaggio non ci si preoccupa di dar loro troppo spazio: certo, compaiono la Val d’Orcia, la raffigurazione della Madonna del parto e una breve descrizione della celebre scena ambientata nel chiaroscuro della camera d’albergo. Tuttavia, tali istantanee, ben lontane dall’assumere una posizione preminente, si confondono anch’esse nel flusso delle immagini in successione, proposte secondo una procedura di accumulazione continua: solo di fronte a tale mucchio disordinato – come ricorda Guerra – lo spettatore e l’artista hanno la piena libertà di attingere senza influenze esterne alle suggestioni che prediligono.