Negli anni recenti si sono accumulati tantissimi documentari sul cinema, allo scopo di divulgare e celebrare l’operato di registi, attori, produttori e altri personaggi dello spettacolo. Si tratta di un genere di discreto successo, che trova spazio nei festival (alla Mostra del Cinema di Venezia esiste una apposita sezione “Documentari sul cinema”) e buon riscontro al botteghino (si veda il successo clamoroso del recente Ennio di Giuseppe Tornatore).
Personalmente ne ho visti molti, spinta dal desiderio di scoprire trivia e aneddoti su autori amati o sconosciuti, e ho potuto constatare che si tratta nella maggior parte dei casi di film molto semplici e conformi a un’idea di documentario televisivo. È difficile trovare qualcosa di originale nella struttura di questi film, principalmente perché si tende a voler enfatizzare il contenuto delle numerose interviste e immagini di archivio a discapito dell’ideazione di un percorso narrativo alternativo. Ma c’è anche da fare una considerazione ulteriore: è ormai assodato che a un aumentare della quantità cala la qualità.
Data questa premessa, che cosa possiamo trovare nell’osservare il film di Peter Bogdanovich, regista che ha sempre manifestato interesse per la storia del cinema e degli autori (si veda il film Diretto da John Ford e il testo Il cinema secondo Orson Welles) sulla storia di Buster Keaton? Emerge la volontà di Bogdanovich di realizzare un racconto onnicomprensivo, in cui possa trovare spazio tutto: documenti, interviste, materiali d’archivio, biografia, aneddotica, un accenno alle dinamiche dello studio system a cavallo dell’introduzione del sonoro, analisi del film e critica.
La nota davvero positiva è il fatto che questo intento riesca, in un film di durata contenuta. Il film impiega la prima ora a imperniare sull’asse biografica quanti più contenuti possibili, procedendo spedito e cadenzando in maniera equilibrata i diversi materiali. Si va dai manifesti dello spettacolo di varietà in cui Buster comparve quando aveva pochi anni alle sue prime comparsate nelle comiche di “Fatty” Arbuckle, fino ai gustosi spot pubblicitari a cui si prestò in tarda età, nell’intento di soddisfare la curiosità dello spettatore. Gli ultimi 40 minuti del film sono invece dedicati a un approfondimento critico dei dieci lungometraggi degli anni ‘20, considerati il grande lascito artistico di Keaton al cinema.
Questa scelta più originale rispetto alla norma ci lascia con le vitali immagini di un giovane Buster acrobata piuttosto che con il vecchio Buster ormai in decadenza. L’altro elemento di originalità sta nel commento personale e appassionato della storia di Buster, per cui la voce narrante di Bogdanovich ci racconta la sua fascinazione quasi infantile per la comicità, l’ingegno e la sensibilità trasmessi da Keaton nei suoi film. Anche le interviste sono gestite come un coro di ricordi, si lascia da parte il commento storico- critico in favore di un’aneddotica più calorosa, idea trasmessa anche dalla scelta grafica della locandina in cui i nomi degli intervistati circondano e sostengono la figura di Buster.
Un uomo, una storia, un mito: ecco le tre dimensioni raccontate da Bogdanovich in questo sintetico, e al tempo stesso molto approfondito, documentario su uno dei padri fondatori dell’arte cinematografica.