L'ottimismo di Steven Spielberg è proverbiale. E così, se sente la necessità (addirittura l'urgenza, a quanto ha dichiarato) di fare un film sull'indipendenza dei media dai poteri forti, sarà un film di solido impegno civile senza alcun cinismo di fondo, come invece va per la maggiore. Spielberg riprende lo scoop giornalistico dei Pentagon Papers, documenti secretati sul Vietnam da cui il pubblico nel 1971 era stato tenuto all'oscuro, e ne fa una bandiera contemporanea della libertà di stampa e del diritto del pubblico di conoscere ciò che per i governanti dovrebbe restare celato.

In The Post, Kay Graham (Meryl Streep), pacata ereditiera ed editore del Washington Post solo a causa della morte improvvisa del marito, fatica a farsi prendere sul serio dai suoi interlocutori in un mondo di uomini. Con Ben Bradlee (Tom Hanks), il direttore del suo quotidiano, ha invece un rapporto basato sul rispetto, nonostante lui spinga sul fronte della notizia e lei su quello della prudenza, in un periodo in cui il giornale si sta quotando in borsa e non deve inimicarsi gli investitori. Nel frattempo scoppia il caso: il New York Times, verso il quale Bradlee prova la sana competizione riservata agli avversari migliori, ha pubblicato documenti top secret riguardanti la reale situazione in Vietnam ed è stato prontamente messo a tacere dall'ingiunzione di un tribunale. Bradlee riesce dopo varie traversie ad entrare in possesso dei documenti, ma a quel punto il dilemma è: pubblicare, o non pubblicare? Rischiare il carcere, le proprie tranquille vite altolocate e l'esistenza del giornale stesso per informare il pubblico, oppure no?

Nel film più prototipico sulla libertà di stampa in quel periodo, Tutti gli uomini del Presidente (1976), girato giusto una manciata d'anni dopo, il senso di pericolo imminente per chi si opponeva al potere era opprimente, in pieno accordo col clima sociale post-Watergate. The Post è un film su eventi di ieri sviluppato oggi, in cui la minaccia è burocratizzata, e passa per le aule dei tribunali in cui si rischia di venir condannati o le feste dei circoli sociali dai quali ci si ritroverà certamente esclusi. È un senso di pericolo per i nostri tempi, non caratterizzato dalla paranoia del quotidiano ma dal sentimento di esclusione verso chi detiene il controllo.

Spielberg vuole ridare forza all'eroismo nella vita civile e alla convinzione di poter agire per cambiare le cose, e naturalmente lo sa fare benissimo: è eccellente nel rappresentare il travaglio emotivo dei suoi personaggi e l'epicità del lavoro di stampa, grazie a inquadrature languide e insistite sui meccanismi delle rotative. La sua impeccabile padronanza della retorica si rivela però anche il suo limite, facendogli costruire un'opera sin troppo classica, seppur di ottima fattura e perfettamente adattata ai suoi scopi. Davvero mirabile resta la calibratura degli elementi, tanto che una scrivania di redazione che comincia a vibrare per la partenza delle rotative può bastare come metafora potente in grado di scaldare il cuore degli spettatori.

Resta qualche eccesso di sottofondo: un'insistenza sulla questione della parità femminile che, pur nobile e del tutto necessaria, sembra più figlia di contingenze della stretta attualità che di una reale appropriatezza nel contesto; qualche monologo di troppo che, per quanto stimolato dalla presenza di attori che sarebbe un delitto sottoutilizzare, rischia a tratti il temibile “effetto spiegone”. Non ce n'è alcun bisogno peraltro: chi doveva avere orecchie per intendere ha inteso e si è pure un po' commosso, Spielberg può stare tranquillo.