Il filone dell'alcolismo come tema drammatico al cinema era stato inaugurato due anni prima, nel 1945, da Giorni perduti di Billy Wilder, confortato inaspettatamente da un grande successo di pubblico e critica, sino a fare incetta di Oscar fra cui miglior film. Di qui probabilmente l'idea di riprendere il tema filtrandolo nuovamente attraverso la lente della relazione sentimentale, solo che nel caso di Una donna distrusse (Smash-up: The Story of a Woman, 1947) di Stuart Heisler è la cantante Angie a sviluppare una dipendenza, dopo aver lasciato il successo professionale per amore del marito, ed essersi ritrovata in seguito quello di lui ad aspettarlo invariabilmente a casa.

Non tanto un film sulla dipendenza come origine di ogni male, quanto piuttosto come conseguenza di una infelicità ordinaria, esiziale: Heisler, evidentemente affascinato dal tema dell'alcolismo (ha un posto di rilievo anche in altre sue opere) racconta un melodramma come un noir, a dispetto del barocchismo della trama, con un senso primigenio di solitudine e inutilità dell'eroe – in questo caso un'eroina – e con una singolare asciuttezza di dialoghi e di interpretazione. Susan Wayward dà tutta se stessa e la propria umiliazione alla parte della protagonista, ed è stata poi candidata all'Oscar come migliore attrice.

Non dunque un film sulla violenza maschile (il marito non brilla per empatia e altruismo, ma non è un “cattivo”), ma sulla violenza dei ruoli di genere rispetto alle possibili inclinazioni e passioni individuali: è l'auspicato ruolo di moglie a portare Angie lontana dal suo successo di cantante, ed è di nuovo l'auspicata prosperità del marito a renderla sola e senza scopo, sostituita in ogni possibile occupazione da segretarie, domestiche e bambinaie. Il pregio maggiore di Una donna distrusse è però, a dispetto del giudicante titolo italiano, proprio l'abilità a mantenersi sul filo dell'ambiguità: è stata la vita a mandare in pezzi Angie, o è stata la sua intrinseca debolezza a farlo? In fondo lei stessa racconta di come anche nel periodo dei trionfi le fossero necessari un paio di bicchierini prima di andare sul palco.

Heisler è avveduto nel mostrare senza dimostrare, suggerendo agli spettatori dubbi prima non contemplati ma lasciando in fondo alle sensibilità soggettive il compito di darsi una risposta. Certo è che il lieto finale, con il benefico e salvifico ravvedimento del marito, che comprende inaspettatamente le istanze della moglie, è quantomai poco credibile. E lascia il pubblico in una fosca inquietudine.