Arriviamo al dunque: le percosse. Non si vedono. O meglio: non si vede il momento in cui Stefano Cucchi viene pestato (o “pistato”, come si sente dire in romanesco nel film) dai carabinieri. Scelta comprensibile, dato che è ancora in corso il secondo processo contro i carabinieri coinvolti. Tuttavia, le percosse sul corpo del povero Cucchi si vedono, eccome. Lungo i nove giorni che separano l’arresto dalla morte, i colori del dolore mutano sulla pelle fino a diventare insostenibili allo sguardo dello spettatore.
Ciò che colpisce più d’ogni altra cosa è lo scarto tra l’indiscutibile visibilità della violenza ai nostri occhi e la scelta di negarla da parte dei complici, volenti o nolenti: celerini, medici, giudici. Addirittura annullarla nel caso dei (presunti) responsabili. In questo senso, Sulla mia pelle è un film non solo corretto ma soprattutto ferocemente politico, che lascia fuori campo le immagini più didascaliche per mettere in primo piano le facce dell’ordinario, cinico, squallido menefreghismo e dell’abuso di potere.
Alla prima grande occasione, Alessio Cremonini recupera la tradizione del cinema civile italiano – più Marco Risi che Francesco Rosi – e la fa incrociare col recente e prolifico filone della periferia romana. Attraverso la presenza di Alessandro Borghi, in un’interpretazione fortemente mimetica al limite del Metodo, Cucchi sembra uscire da Non essere cattivo, col suo carico di disincanti e tormenti da immolare sull’altare del biopic. Ecco, volendolo inserire nel catalogo del periferia-movie, si tratta del primo film biografico del filone, in un cinema, quello italiano, che ha pressoché appaltato questo genere alla televisione (due eccezioni significative: Il giovane favoloso e Nico, 1988), sottovalutandone le infinite possibilità di rielaborazione insite nel concetto “tratto da una storia vera” (pensiamo, tra i contemporanei, a Bennett Miller).
Pur attestandosi fedelmente alle carte processuali, Cremonini, aiutato dalla cupa fotografia di Matteo Cocco e dalle tese musiche dei Mokadelic, trova il coraggio di immaginare il calvario di Stefano, senza farne un santino ma scandagliando l’angoscia di un ragazzo consapevole di essere nei guai al punto di negarsi l’eventuale salvezza, denunciando un sopruso tanto vergognoso quanto incredibile. Come dice il papà Max Tortora (ricollocato nel dramma, dopo La terra dell’abbastanza il comico dà ulteriore prova di straziante umanità): la tua parola contro quella dei carabinieri non è mica una passeggiata.