Al quinto lungometraggio in otto anni, il cinema di Roberto Minervini resta un oggetto ostinatamente inclassificabile. Documentario, diciamo, usando le categorie tradizionali. Forse non è un caso che sia stato selezionato per il concorso, lasciando fuori gli ultimi, travolgenti lavori dei due venerati maestri Frederick Wiseman ed Errol Morris. In realtà, visti in sequenza, i tre film forniscono un impressionante quadro dell’America contemporanea. Se Monrovia, Indiana di Wiseman entra nel quotidiano di una comunità agricola per capire il suo contributo all’affermazione del neo-conservatorismo, in American Dharma Morris incontra di nuovo un sacerdote del male, che questa volta ha la faccia di Steve Bannon, ideologo di Donald Trump. E Minervini?
Si pone nel titolo la domanda della vita: Che fare quando il mondo è in fiamme?. Il mondo ovvero l’America, seconda patria del regista marchigiano, raccontata dall’interno, secondo un approccio immersivo solo superficialmente affine a quello di Wiseman. Come, d’altronde, accadeva nei precedenti film di Minervini, nei quali l’autore sta addosso alla realtà per poi ripensarla al montaggio. E, come in altri film presentati a Venezia (l’antologia televisiva dei Coen, la catena di volti nella semi-installazione di Tsai Ming-liang), anche questo s’interroga su cosa sia oggi un film, sui limiti e confini di un concetto espanso, dilatato, revisionato, messo in crisi.
In continuità con le precedenti esperienze, Minervini esplora i codici del documentario per farne emergere la dimensione della fiction. Si cala, così, nel mondo che intende raccontare cercando nella popolazione un’indispensabile fiducia. Ma qui parliamo della questione razzista nell’America contemporanea, e quindi ci sono le fiamme, il dolore, la memoria, le ferite, la morte. C’è una tensione più impulsiva verso il reportage di un materiale talmente infiammabile da risultare pericoloso per un regista bianco ed europeo che, sulla carta, deve inevitabilmente misurarsi con gli altri documentari sul tema prodotti negli ultimi anni (I Am Not Your Negro, XIII emendamento, The Black Panthers: Vanguard of the Revolution… per tacere dei film di fiction).
Per intraprendere il suo discorso sui soprusi subiti dagli afroamericani in una stagione in cui la minimizzazione del razzismo è veicolata dalla massima istituzione, mentre il Ku Klux Klan riemerge dalle ceneri del passato più scuro, Minervini entra in contatto con la comunità del quartiere nero di New Orleans, trovando nella proprietaria di un bar l’epicentro di un affresco doloroso. Anche feroce, perché è chiara la valenza politica di un lavoro dalla parte delle vittime, che a loro volta hanno dovuto radunarsi nelle redivive Pantere Nere per riconoscersi e combattere contro la quotidiana ingiustizia.
Minervini individua la forma dell’indignazione nell’immagine gospel di una comunità impegnata a cantare la propria dignità, a cercare altre possibilità di mondo. In un bianco e nero ribelle e senza tempo, si concentra sulle facce, sui riti domestici, sull’attività di contestazione, catturando i corpi in inquadrature empatiche quanto opprimenti. Lungo le due ore sembra costantemente chiedersi “cosa fare” e nonostante la rielaborazione del montaggio di Marie-Helene Dozo non sempre va al di là della denuncia: ne viene fuori un lavoro importante eppure dispersivo, disomogeneo, che ci dice molto meno di quanto vorremmo. Poi, in un festival nel quale si è molto litigato sulle derive del sensazionalismo, non nascondiamo qualche problema morale di fronte al pestaggio della polizia nel finale.