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“Monte Verità” e l’esperienza del mondo

Nei ripetuti confronti con il suo psicoanalista Otto Gross (che ricordano quelli raccontati da Cronenberg in A Dangerous Method), fermo oppositore delle teorie di Freud, riesce ad ascoltarsi e ad avere un’idea chiara del proprio cammino. Stefan Jäger si serve di un personaggio di finzione (una donna con la passione per la fotografia, a Monte Verità, non è mai esistita) per la costruzione della sua narrazione; indaga, così, la condizione femminile del passato ricollegandosi ad oggi.

“Rodeo” e la famelica arroganza

Lola Quiveron dimostra l’intento di indagare il rapporto tra una donna e un gruppo di uomini che viene ostacolata, derisa e poi temuta. Julia rappresenta una presenza “pericolosa”, perché è imprevedibile, sfacciata, indomabile; proprio per questo va placata, spenta. La sua ribellione non regge il colpo, complice (forse) anche la sua incapacità di ammettere che non tutto può essere gestito e raggirato con i suoi metodi, ma ci sono anche degli imprevisti, delle reazioni inaspettate da parte di quegli “altri” che per Julia non contano, ma di cui si serve per arrivare dove vuole e nel minor tempo possibile.

“Billy” e gli spazi della solitudine

“Bisogna pur credere in qualcosa, anche se non esiste”, dice la madre a Billy. Questa, sembra essere la stessa constatazione che ha permesso alla regista di portare avanti il suo progetto apparentemente focalizzato su un unico personaggio, ma, in realtà, corale e di fare della semplicità la sua inattaccabile cifra stilistica. Semplicità – e modestia dei mezzi – che rimandano anche alla fotografia di Luigi Ghirri, a cui la regista ha espressamente dichiarato di ispirarsi.

“Dalíland” e la distanza tra l’essere artisti e amare l’arte

Mary Harron sembra partire da un presupposto che, dal principio, le serve per assicurarsi una piena riuscita del suo ritratto. Raccontare in una pagina personaggi così complessi è impensabile. Anzi, surreale. E lei, da professionista in biografie ne ha piena consapevolezza. Dalíland è, piuttosto, una riflessione sull’arte inserita in un contesto di atmosfere festaiole, dettami dell’industria culturale che gravano sulla creatività degli artisti, manie, ossessioni e ipocondrie di un genio capace di definirsi e perdere i contorni di se stesso con la stessa naturalezza.

“L’amore secondo Dalva” nel buio dell’abuso

L’amore secondo Dalva analizza il rapporto tra soggetto e oggetto, denunciando (senza compromessi) le condizioni abusanti in cui versano tanti minori. È una storia buia – come erano bui i tempi che ha descritto con violenza Bertolt Brecht – quella che la regista (anche sceneggiatrice per il suo primo lungometraggio) mette in scena e da cui lo spettatore vorrebbe difendersi, scappando proprio come Dalva.

“Mediterranean Fever” come riflessione sulla finitezza

Mediterranean Fever, miglior sceneggiatura a Un Certain Regard al Festival di Cannes 2022, è una riflessione sulla finitezza, sul dramma del saper vivere proposto con un’impronta personale supportata da un’ironia cechoviana che esalta il privilegiato egoismo e il libero lamento. C’è, poi, l’inquietudine delicata della questione palestinese vissuta da cittadini arabi nello Stato d’Israele, ma non si trasforma in una discussione (inesauribile) sui massimi sistemi, né assume un tono incattivito, e tantomeno “bellico”.

“L’innamorato, l’arabo e la passeggiatrice” e la coazione a ripetere

La filmografia di Alain Guiraudie è caratterizzata dal binomio tra concreto ed inconscio, capace di tenersi in sospeso tra le due “soluzioni”. Ne L’innamorato, l’arabo e la passeggiatrice si (ri)presentano le caratteristiche del suo cinema: l’erotismo, la dimensione del sogno che consente alla temporalità di mantenersi indefinita, spesso priva di segni identificativi, i rituali scanditi da atti sempre uguali che trasformano i personaggi in pedine.

“Amira” e la fotografia come atto di resistenza  

In Amira si presenta la necessità di raccontare mantenendo, però, sempre una profonda aderenza alla realtà. Di indagare le radici di un odio che non si può risolvere soltanto in una questione genetica. Diab vuole raccontare una e più verità, come diceva Pirandello in una delle sue commedie più conosciute, “Così è (se vi pare)”: “La verità non ha volto, e ha tanti nomi quante sono le persone. “Chi sono?”, diceva un personaggio, “Io sono colei che mi si crede”.

“Mia” di nome e di fatto

Ivano De Matteo (al suo settimo lungometraggio) incentra la narrazione su due tematiche: il possesso e i luoghi comuni. Mia non è solo il nome della giovane quindicenne, è anche la rappresentazione di un’idea di appartenenza continuamente ribadita. “È mia, non più tua”, dice Marco a Sergio quando – ormai – pensa di aver acquisito il diritto di rivendicare il suo dominio. Il nome della ragazza, poi, viene ripetuto incessantemente, come a voler insistere sull’idea, in parte anche esasperandola.

“La cospirazione del Cairo” e i meccanismi che sostengono il Potere

La cospirazione del Cairo, vincitore a Cannes 2022 per la migliore sceneggiatura, ci presenta la realtà di un mondo che – per eccellenza – dovrebbe essere il punto di riferimento morale dell’intera sfera islamica, senza demonizzarla, raccontando con rigore, conservando una profonda onestà. Non fornisce soluzioni, né si accanisce contro i “potenti”. Tarik Saleh insiste su un’idea di cinema non “bellico”, ma che rivendica il bisogno di libertà e informazione.

“Terra e polvere” ci insegna a demolire e ricostruire

Cos’è più forte dell’apatia? Quale sentimento può restituire un’immagine potente, complessa e completa, della vita in un luogo in ricostruzione? Youtie e Guiying vivono in una zona poverissima nel nord-ovest della Cina. Lui è un contadino, l’ultimo della sua famiglia ancora celibe; lei - sterile e con una disabilità - ha superato l’età considerata idonea per non avere ancora un marito. Decidono di sposarsi, tramite un matrimonio combinato. Quell’incontro forzato si trasforma in...

“Il frutto della tarda estate” e come resistere senza spezzare i rami 

Quello di Sehiri è espressione di un cinema che più di tutto è interessato ad aderire alla realtà, esplorandola senza stereotipi. In Il frutto della tarda estate emerge una paradossale contraddittorietà, tra spazio privato e pubblico, evoluzione e involuzione, libertà e asservimento. Ci si concede la possibilità di esprimersi attraverso silenzi rivelatori o confessioni impellenti, in un’alternanza tra il buio e la luce, quella che penetra tra i rami. E sono proprio i rami ad essere più di tutto protetti, mai spezzati: come se dovessero resistere, proprio come i lavoratori.