"Mi interessano molto le textures... Per esempio, una volta avevo un gatto morto. Me lo aveva dato un veterinario. Lo portai a casa. Fu davvero un’esperienza. Avevo preparato tutto in cantina. Lo dissezionai".

Così David Lynch durante un’intervista rispose a un giornalista interessato ad avere delucidazioni sul suo concetto di “forma”: scomposta, tumefatta, gonfia, la materia lynchana, speculare riproduzione della vertigine onirica, di quello spazio altro abitato da phantasma della mente e dell’inconscio, in cui coesistono territori ontologicamente ibridi e sospesi tra reale e immaginario. È il sonno della ragione che genera mostri, quei mostri dalle sagome indefinite e voci stridule che in Eraserhead - La mente che cancella (1977) acquisiscono una plasticità quasi rivoltante, eredità del surrealismo più oscuro e bizzarro dove l’oggetto diviene simulacro di desideri crepitanti e feticismi inconfessabili. Ed eccoci arrivare, gradualmente, a Crash (1996).

È già stato scritto moltissimo sul tentativo di infrangere le barriere del rappresentabile da parte del cinema con la new wave americana e Lynch e Cronenberg più di tutti ne hanno sondato ed esplorato i margini: la distorsione e manipolazione della figura umana da parte dell’oggetto, dell’altro da sé - la tecnologia, ad esempio, in Crash – divengono così veicolo di trasmissione di un’ulteriore mutazione, quella del soggetto, della propria identità e sessualità che non possono che compenetrarsi, confondersi, consumarsi fino a risultarne logori; e così si cominciano a pretendere altre modalità di espressione, di esaltazione e stimolo delle proprie smanie, o manie.

"Mi piacciono tanto le manie. Ne coltivo qualcuna e ne parlo anche, qua e là. Le manie possono aiutare a vivere. Compiango gli uomini che non ne hanno". Non è difficile pensare a un accostamento, o meglio, a una comunanza di idee e immaginario tra l’autore di quest’affermazione Luis Buñuel e le difformità del cinema di Cronenberg, perché in entrambi è vitale il bisogno di dare forma a tutto il rosario di corpi martirizzati che conosciamo e lo sguardo cinematografico legittima così ciò che fino a ieri era proibito. In Crash, come in Bella di giorno (1967) o Tristana (1970) lo spettatore è ingabbiato nella brutalità di un eros che sconfina nel grottesco e nell’aberrante, in un fuori dall’ordinario che però lo attanaglia: in Tristana, a un’esangue Catherine Deneuve viene amputata la gamba destra e la donna, per tutto il resto del film, indossa un gambaletto nero che nasconde l’arto artificiale, osservato quasi sempre con voluttà dalla figura maschile che l’accompagna, l’anziano Fernando Rey. E queste ossessioni per le offese corporali di stampo sadiano riecheggiano, in maniera altrettanto compulsiva, nelle immagini di Cronenberg e nel feticismo per le carni dilaniate e metalliche di Crash.

Crash si insinua in quello spazio di transizione che ha attraversato e attraversa la cultura moderna, di manipolazione di genere (e generi) e sessualità turbolenta, di un gelo che ne infiamma e svilisce i corpi, come nella sequenza della masturbazione consumatasi tra James, la Arquette e Holly Hunter; o quella che il regista considera la sua scena preferita, del sesso in macchina durante l’autolavaggio con la spettacolare coreografia di fluidi da cui è caratterizzata. L’occhio del regista sottolinea, inoltre, le menomazioni di ciascun protagonista in maniera tale da fare di cicatrici e orribili protesi esterne oggetti feticistici e strumenti di seduzione nelle mani dell’inquietante Vaughn o di Gabrielle. Una nuova, difforme sessualità. Lo spettacolo quotidiano della perversione come normalità attuale rappresenta il centro nevralgico della riflessione di Cronenberg anche in un film come Videodrome (1983) in cui l’esposizione del corpo passa attraverso la radicalizzazione di contenuti pornografici e violenti, sfidando lo spettatore e provocando le energie più torbide della pulsione scopica - il desiderio, la brama con cui orientiamo il nostro sguardo - che il cinema edulcora.