Forse dovevamo farci questa domanda quando nel 2017 venne premiato con l’Oscar al miglior regista per La La Land, le cui luci e colori, musica e maestria tecnica, romanticismo e spietatezza con cui quel film ci aveva abbagliato hanno forse rimandato questa riflessione. Con l’uscita di Babylon però Chazelle non può più fuggire al giudizio del pubblico e della critica sul suo ruolo nell’industria cinematografica internazionale.

In un’epoca in cui sempre più spesso parliamo di cinema globale, di co-produzioni, di integrazione delle minoranze e della scoperta di nuovi punti di vista, Chazelle realizza un’opera fortemente identitaria: americana, bianca, fallocentrica ancor più che maschilista e ovviamente cinefila, nella sua accezione più incancrenita e ombelicale (citando molto anche se stesso). Negli anni recenti abbiamo percorso una spirale discendente dei film sul cinema sempre più superbi e altisonanti e sovente autoriferiti (pensiamo a Mank, a C’era una volta a Hollywood, ma anche a The Fablemans) e con Babylon precipitiamo nell’ultimo girone infernale.

Ma dal fondo non possiamo far altro che risalire, ed è forse questo il più grande merito che vorrei riconoscere al film di Chazelle. Da questa visione estetizzante e al tempo stesso superiore, che vuole coniugare il disincanto dei professionisti alla fascinazione degli appassionati, che vuole tentare la ricostruzione avvincente ma al tempo stesso parodistica, l’industria cinematografica hollywoodiana ha una nuova occasione per analizzarsi.

Che cosa ce ne facciamo del citazionismo feticista, diventato la nuova cifra di stile grazie alla diffusione dell’home video? Con le nostre manie stiamo glorificando il cinema o lo stiamo condannando alla misura della conquista personale? Perché i registi sentono questo bisogno di incensarsi a divulgatori della storia del cinema come fossero i suoi scopritori? Per altro senza tener conto in alcun modo della ricostruzione storica.

In Babylon convivono la descrizione degli anni ’20 con i colori, le atmosfere, il dinamismo, i comportamenti degli anni ’20 del 2000, per cui accanto a cineprese descritte nei minimi dettagli come oggetti da collezione vediamo una rappresentazione delle situazioni, che si tratti di feste o set cinematografici, permeati di concitazione post moderna, esaurita, nevrotica, mi spingo a dire virtuale, “un’elaborazione informatica che pur seguendo modelli realistici non riproduce però una situazione reale”.

In tutta questa confusione emerge però una cosa con chiarezza disarmante: lo sguardo paternalista e sufficiente nei confronti della donna, in particolare della protagonista interpretata da Margot Robbie. Ecco, quando si tratta di donne non esiste passato o presente, non esiste aggiornamento, esiste solo lo sguardo maschile. Non solo i corpi sono lucenti, perfetti e glabri, possibilmente nudi o disposti a scoprirsi, ma per di più permane la rappresentazione della donna come un animale indomabile, che riesce a conquistare i suoi successi grazie al caso o grazie alla propria fisicità dirompente messa a disposizione, e che infine può trovare la salvezza solo grazie a un cavalier servente.

Chazelle si rivela la faccia pulita di una Hollywood che continua per la sua strada, posizionando qua e là personaggi messicano discendenti, afro americani, orientali, allo scopo di dare una parvenza di colore, ma al tempo stesso dipinge il percorso ascendente dell’uomo che si è fatto da sé (il tuttofare Manny, l’handyman che riesce a diventare produttore senza mai perdere il garbo e la cavalleria che lo porteranno alla conquista della bella bionda premio) in netta contrapposizione con quello discendente di Nellie, che viene costantemente vessata per essere qualcosa di diverso (più lacrime, meno lacrime, arrivare giusta al suo segno sul pavimento, assediata dai fan, sminuita dai colleghi), caratterizzata dai vizi, incapace di comportarsi bene, emancipata solo in quanto selvaggia e che alla fine trova la libertà solo nella morte.

Nell’ottimo pezzo di Lorenzo Meloni, che potete leggere qui su Cinefilia Ritrovata, si evidenzia la poetica del sacrificio per la perfezione portata avanti nel cinema di Chazelle (e da tutta la società tardo capitalistica), nel quale guarda caso sono le donne a non tenere il passo. Di che cosa ci sorprendiamo? Questo è il cinema americano che continuiamo ad amare e a guardare, che continuiamo ad osservare nella sua dimensione emozionale e compositiva, che continua però a perpetuare un certo sguardo e a plasmare il nostro immaginario.

Nel cinema di Chazelle questo intento diventa chiaro: vuole educarci alla disciplina e alla storia. Sta a noi decidere se sottometterci o meno.