Nell’introduzione inviata per l’occasione, Martin Scorsese ha ricordato altri due adattamenti del racconto di Ernest Hemingway all’origine di I gangsters: uno è Gli uccisori, corto che Andrej Tarkovskji realizzò durante i suoi studi universitari; l’altro è un lavoro televisivo, ormai perduto, che lo stesso Scorsese diresse agli inizi della carriera. Entrambi, secondo il regista di Toro scatenato, non possono – non vogliono – reggere il confronto con I gangsters di Robert Siodmak, non solo straordinaria trasposizione del racconto ma soprattutto testo fondativo del noir, restaurato da Universal Pictures e The Film Foundation sotto la supervisione di Scorsese e Steven Spielberg.

Esule tedesco accolto ad Hollywood come tantissimi colleghi europei fuggiti dalla tragedia nazista (Billy Wilder, Otto Preminger, Fred Zinnemann…), Siodmak non gode presso la giovane cinefila dell’attenzione che meriterebbe, se non altro perché il suo magistero ha influenzato così tanti registi al punto da essere paradossalmente minimizzato. In quanti hanno provato a replicare, bene o male che sia, La scala a chiocciola? Di fronte a certe incredibili profondità di campo, per esempio, non si fa fatica a rintracciare l’influenza di Quarto potere, ma – come in Piccole volpi di William Wyler – Siodmak non si limita ad imitare il genio, quanto piuttosto a declinare l’innovazione dentro altre dinamiche, seminare terre vergini per costruire iconiche idee di mondo.

Dietro a I gangsters ci sono John Huston e Richard Brooks, sceneggiatori non accreditati assieme ad Anthony Veiller, unico riconosciuto. E se del primo, reduce dalla codificazione del genere de Il mistero del falco, non è difficile individuare il gusto dell’enigma dentro una struttura a flashback di inattaccabile coerenza, il contributo del secondo – regista tra i più eclettici e sottovalutati della Hollywood classica ed oltre – si rintraccia nel disegno di personaggi titanicamente sull’orlo del baratro. Burt Lancaster, qui all’ineccepibile debutto, deve a Brooks il suo unico, meritato Oscar (Il figlio di Giuda); Ava Gardner, indimenticabile femme fatale felina, bugiarda, doppiogiochista ed infine capace di terrificante cinismo infantile, è una figura in bilico tra le problematiche donne di Brooks e le rapaci creature di Huston.

Poi, va da sé, Siodmak impartisce eterne lezioni di regia a tutti coloro che vogliono riprendere un’ombra come se fosse un corpo pulsante emozioni incontrollabili, un volto sospeso nel buio di uno dei b/n più affascinanti di sempre, l’asfissia dei cieli dipinti negli interni in studio che riescono a trasmettere l’atmosfera pesante e straniante di un esterno ostile, una rapina che dia la sensazione di essere al centro del pericolo.  E, con estrema naturalezza, costruisce un avviluppante mosaico romanzesco, curiosamente guidato da Edmond O’Brien, vero protagonista della storia relegato tra gli also starring dopo i due divi. Nel ruolo, ricorrente all’epoca, dell’agente assicurativo (vedi La fiamma del peccato, primo vangelo del genere), l’attore si districa in uno schema narrativo che avrebbe ritrovato, assieme ad Ava Gardner, nello strepitoso La contessa scalza. Insomma, film seminale ed inesauribile.