Lo sappiamo: Blade Runner partiva da un romanzo di Philip K. Dick, edito in Italia come Il cacciatore di androidi nel 1971 e poi riproposto traducendo fedelmente il titolo originale, Ma gli androidi sognano le pecore elettriche?. Da questo elemento editoriale tutto nostrano, possiamo curiosamente notare le due anime del testo: il poliziesco e l’esistenzialismo. Attraverso il capolavoro di Scott, le due componenti si definiscono ancora di più adottando i connotati dell’hard boiled ed esplorando la frontiera cyborg.
Forma, contenuti. Al di là delle etichette, al centro c’è l’uomo, isolato in una solitudine affollata di menzogne. Come definito dal titolo, Harrison Ford è un uomo d’azione. Ma è soprattutto introverso, riflessivo, tormentato. D’altronde questo attore ha capitalizzato negli anni Ottanta, complice la convergenza tra fertilità artistica di alcuni autori e il successo commerciale dei loro film, uno statuto action davvero versatile, dagli avventurosi ed iconici Han Solo e Indiana Jones all’hitchcockiano marito a disagio nella Parigi di Frantic (Roman Polański, 1988) passando per il detective nella comunità parallela di Witness (Peter Weir, 1984). Rispetto a Blade Runner, le storie citate sfociano in un lieto fine spinto dall’intervento in prima persona dell’eroe. Il pessimismo che invece penetra il film di Scott dialoga con l’inafferrabile corpo di una città frammentata, metafisica, decadente, cupa, tenebrosamente sviluppata in verticale.
Un rapporto tra individuo e spazio che reinterpreta quello che fondava il noir urbano degli anni Quaranta, coi capisaldi come modelli delle infinite repliche – il genere e i suoi replicanti: e qui il discorso potrebbe diventare troppo sofisticato. Blade Runner, in fondo, è un noir, con un protagonista che esercita una violenza non gratuita, dominato da un eterno conflitto con la vita e i suoi abitanti e soprattutto inesorabilmente solo. Dashiell Hammett, Raymond Chandler, dunque Humphrey Bogart. Il mistero del falco (John Huston, 1941) oppure “la materia di cui sono fatti i sogni”: è sempre una questione di statuette, ce lo dice anche Blade Runner 2049 con il cavallino di legno a ricordarci un passato imperscrutabile nonché la materia di cui è fatto Pinocchio. Cioè Ryan Gosling, che sogna di essere il bambino che forse non è mai stato; e il magmatico film di Villeneuve ne racconta proprio il tentativo di crescita, la ricerca del padre, la brama di vivere.
Ma la città del futuro, nonostante l’impalpabile Joi esca dallo schermo pubblicitario per sedurre il protagonista, non è il paese dei balocchi collodiano: è, ci risiamo, l’ennesima mutazione della giungla d’asfalto. Anche ne Il grande sonno (Howard Hawks, 1946) la scenografia è soltanto in parte realistica: descrive anzitutto la metafora del percorso interiore di Bogart, un luogo spirituale dove sui marciapiedi, sulle strade bagnate e negli anfratti oscuri il detective si arrovella per risolvere un intrigo impossibile. Più del colpevole da smascherare, la preoccupazione è nel metodo. Il cuore di questi film, infatti, sta nell’indagare entro le sensazioni sperimentate dal protagonista scoprendo ciò che il suo cuore non vorrebbe sopportare. Non a caso Blade Runner 2049 deflagra quando il melodramma perfora gli occhi umidi di Gosling e Ford, mentre la lacrima della replicante si confonde con l’acqua che sta annullando il suo corpo ipotetico.