“Dov’è che il vino viene giù anche dai rubinet? Ad Hammamet! E dov’è la reggia con tanti bei stanzet? Ad Hammamet!”. Sono solo due delle tante iperboli feroci contenute nella canzone di Paolo Rossi che si scagliava nel 1994, in piena tempesta Tangentopoli, contro Bettino Craxi travolto dall’inchiesta di Mani pulite ed in contumacia in Tunisia per sfuggire all’arresto. Immaginavano, come larga parte dell’Italia dell’epoca, che la latitanza avesse luogo in un castello, arredato con fontane sottratte al demanio pubblico italiano, attorno cui si muovevano leoni presi dagli zoo e sotto alle quali giacevano tesori preziosi.

Le porte di quella reggia sono state aperte dai figli dello storico segretario del Partito Socialista per consentire a Gianni Amelio di mostrare che tale non era, e anche di portare in scena una ricostruzione, quella immaginata dal regista, degli ultimi mesi di vita di Craxi nella sua casa tunisina. Aprire porte per portare a galla un rimosso: l’intenzione del regista è onesta e anche scomoda, così come le motivazioni sottostanti. Davvero un paese si può permettere di consegnare alla storia un suo protagonista colpevole di finanziamento illecito ai partiti assimilandolo a Hitler e Mussolini, come è stato fatto con Craxi? E se sì, le conseguenze sociali di tale giudizio sono trascurabili? Davvero degli oppositori politici possono sentirsi in diritto di lanciargli monetine fuori da un albergo perché il loro partito non è perseguito per lo stesso reato? E i metodi dell’inchiesta di Mani pulite, che portarono diversi al suicidio rovinando a cascata storie e vissuti delle persone loro più vicine, non sono forse da riconsiderare per avere un quadro completo della storia di quegli anni? Domande legittime senz’altro, doverose anche da tempi antecedenti la morte di Craxi, avvenuta venti anni fa. Il problema del film di Amelio non è la mancanza delle risposte, ma che queste domande non risuonino con la solennità e la severità necessarie. Se terremoto doveva essere, non sentiamo la terra muoversi sotto i nostri piedi. Se una finestra doveva essere rotta, non ci sentiamo in pericolo per i vetri a terra.

Cosa ne consegue? La pellicola è un prodotto inesportabile all’estero, alla stessa maniera di The Master di Paul Thomas Anderson e reticente quanto quest’ultima; per motivi simili irrilevante per una grande fetta di pubblico anche nostrano. D’altro canto, per le persone meno giovani, e a conoscenza dei fatti, gli aspetti più personali legati all’amante dell’ex leader appaiono francamente sacrificabili rispetto a quelli legati alla questione politica che lo ha interessato, quella sì davvero significativa per la vicenda umana e pubblica del personaggio. Il figlio del tesoriere socialista suicida, figura psichicamente danneggiata attraverso cui Amelio mette in luce il carattere curioso ed accogliente del Presidente, non sembra inoltre quella più appropriata a ricevere in consegna la sua verità sulla parabola politica personale, del partito e di una fetta di storia d’Italia, che resta comunque non rivelata, in linea con la reticenza di cui si diceva sopra.

Infine, la sequenza onirica a metà strada fra Fellini e Sorrentino, che lo ritrova bambino, figlio e politico in carrozzella dileggiato senza appello dal cabaret, stona nella forma proprio con le parti più riuscite del film. Che appassiona non poco nel mostrare l’apertura e l’acume dell’uomo e del leader, la sua visione ampia e priva di pregiudizi, la lucidità affettiva nel rapporto con i figli e i nipoti e quella politica nel confronto con colleghi e avversari. In una parola: il suo carisma. In questo soprattutto si inserisce la grandezza dell’interpretazione di Favino, non solo straordinariamente mimetica ma capace di rappresentarlo come un sole al tramonto ancora in grado di illuminare con naturalezza innata i pianeti che riverenti o sprezzanti gli ruotano intorno.