Ci facciamo accompagnare da due studiosi internazionali alla riscoperta di Peter Lorre e di uno dei suoi film più celebri grazie al Cinema Ritrovato 2022.

 

La sua voce evoca angeli e demoni, il suo corpo e il suo volto sono quelli di un bambino oppresso dal senso di colpa. Charles Chaplin lo definì “il più grande attore vivente”, e per il suo amico Bertolt Brecht fu semplicemente l’interprete ideale. Ma Peter Lorre (1904-1964) è anche Un uomo perduto. Scelse questo titolo per la sua unica esperienza di regia e molti studiosi lo applicano a tutta la sua carriera. È una stella errante nella galassia delle icone del cinema: allontanandoci dalle sue false promesse per attirarci in un mondo di disagio, ci ha offerto una rappresentazione tra le più fedeli dell’uomo del Novecento. La sua personalità fuori e dentro lo schermo è il risultato frantumato di un percorso che ha attraversato il modernismo e i fascismi europei, la tossicodipendenza e l’esilio, la cultura del denaro e la fama: in essa si riflettono volti e maschere del suo tempo.

È su questa mappa che si situano i temi dei suoi film migliori e le sue interpretazioni più intense. “Perseguitato dal precoce successo in di Fritz Lang e da una malattia cronica, dagli stereotipi hollywoodiani, dal maccartismo e dall’indifferenza della società postbellica della Germania Ovest, Lorre non realizzò mai appieno le sue potenzialità”: sintesi come questa, seppure non inesatte, tendono a non vedere gran parte di ciò che questo programma tenta di riportare alla luce. Fatta eccezione per l’interpretazione dichiaratamente ‘espressionista’ in The Beast with Five Fingers, non ci concentreremo sul manto di orrore ed esotismo che fu cucito addosso a Lorre dagli studios e dai loro pubblicitari, né sugli amatissimi ruoli di fedele compagno di Humphrey Bogart alla Warner Bros. Speriamo invece di riuscire a illustrare gli abissi di tristezza e le vette comiche raggiunti da Lorre in ruoli più sostanziali, che gli venissero da grandi maestri (fu una spia straniera per Hitchcock, Rodion Raskol’nikov per Sternberg) o da nomi meno nobili come Granowsky, Ratoff, Florey e Lloyd.

The Face Behind the Mask, geniale come titolo di film e come definizione per Lorre, evidenzia alcuni tratti fondamentali del lavoro dell’attore: fatalismo, angoscia, la dubbia morale borghese, le sfumature dello sradicamento nel personaggio dell’immigrato. Possiamo sovrapporre questo “volto” a quello di Kaspar Hauser – progetto sognato per tutta la vita e mai realizzato – e vederlo come un trovatello: László Löwenstein, nato alla periferia di un Impero. A diciannove anni fu ribattezzato Peter Lorre dall’inventore dello psicodramma, Jacob Levy Moreno, del cui Teatro della Spontaneità viennese era entrato a far parte. Quarant’anni dopo la sua carriera si sarebbe conclusa con un film intitolato The Patsy. Oggi la descrizione migliore è quella esistenzialista di Elfriede Jelinek: “Lorre è la voce alta dentro di noi che ci fa capire di essere stati strappati da ogni contesto, sviliti”. Ma possiamo anche prendere in parola il trovatello quando diabolicamente accetta l’ammonimento di Erich von Stroheim: “Senza di me saresti perso in questo mondo sofisticato di uomini scaltri e donne intelligenti”, e Lorre: “Sì, sono solo un bimbo nel bosco”.

(Alexander Horwath)

 

si apre con le voci di bambini che recitano allegramente una filastrocca su un killer che fa a pezzi le sue vittime con la mannaia. L’innocenza e il terrore si prendono per mano, stabilendo un sinistro collegamento tra i bimbi e Hans Beckert, l’assassino compulsivo di bambine che con le sue guance paffute, le piccole mani e gli occhi gonfi di paura suscita sia ripugnanza che pietà. Il mostro a piede libero spacca la società rivelandone le viscere marce: la popolazione trasformata in folla inferocita è preda di un’isteria grottesca; la malavita si dimostra ancora più spietata ed efficiente della legge. “Chi è l’assassino?” chiedono esplicitamente i manifesti. Fritz Lang pose l’accento sull’origine da fatti di cronaca del film, ispirato da articoli su episodi realmente accaduti e dalla spietata lucidità della corrente artistica Neue Sachlichkeit (Nuova oggettività). Due anni prima dell’ascesa al potere dei nazisti in Germania – che spinse sia Lang che il protagonista Peter Lorre a lasciare il paese – il film guarda con distaccata compassione i mendicanti menomati, i malati di mente, le casalinghe consumate dalla fatica.

Due terzi del primo film sonoro di Lang furono girati come un muto, e l’aggiunta del suono apporta elementi innovativi come raccordi sonori, rumori fuori campo e un silenzio tombale che accentua la tensione. I primi dieci minuti di sono costruiti con precisione allo stesso tempo musicale e chirurgica: inquadrature oblique dall’alto minacciosamente contrappuntate da suoni ordinari conducono a un montaggio perturbante – una tromba delle scale, panni stesi ad asciugare in una soffitta deserta, un posto vuoto a tavola, un palloncino impigliato nei fili del telefono – mentre una madre chiama invano la figlia scomparsa.

All’epoca Lorre era noto soprattutto per i lavori teatrali con Bertolt Brecht, ma con M, il film della svolta, l’ombra dell’assassino di bambini era destinata a perseguitarlo, proprio come Beckert dice di essere inseguito da sé stesso, di correre per strade senza fine circondato dai fantasmi di madri e di bambini. Il bruciante monologo di Beckert non perde mai la sua cruda forza; impossibile sottrarsi all’accusa lanciata dal suo grido tormentato: “Chi può sapere come sono fatto dentro?”.

(Imogen Sara Smith)