Tornare agli anni di Mean Streets e Goodfellas ma dalla prospettiva di un’altra età e di un altro tempo: se Joker vince facile rifacendo con attori di oggi i temi dello Scorsese di quarant’anni fa, lo Scorsese originale di The Irishman fa un film con gli attori di allora ma che allora non avrebbe mai potuto fare. Lo sguardo è quello attuale – stratificato, appesantito, riflessivo, disilluso – suo e dei suoi attori-amici, che interpretano i loro personaggi dal dopoguerra ai giorni nostri. Per il regista una condizione imprescindibile all’esistenza stessa del film, pronto a spendere milioni di dollari di post produzione per poter permettere a De Niro e Joe Pesci di tornare ad essere i suoi bravi ragazzi. Il percorso inverso di qualsiasi altro film, scelta 3.0 di quella fatta da John Ford nel 1962 quando richiamò il cinquantacinquenne James Stewart per fare il ragazzo giovane e idealista di L’uomo che uccise Liberty Valance. Ma non c’è leggenda qui, solo la vita vera (e un po’ noiosa) di Frank Sheeran, impiegato irlandese della mafia italo-americana, autore di una violenza vissuta come un dovere d’ufficio, senza rimorsi e senza domande; si spara come si timbra il cartellino, per fedeltà al datore di lavoro e per il sostentamento di moglie e figli.
Il tempo della storia si dispiega passo passo, invade ogni inquadratura, ed è il vero protagonista e il punto di vista primo e ultimo del film. Il tempo che trascorre inesorabile e senza emozioni sullo schermo e quello che è trascorso nella realtà, nascosto dall’impressionante ringiovanimento digitale dei protagonisti ma impossibile da cancellare dai gesti, dagli sguardi, dai corpi degli attori. Una scelta folle e meravigliosa che si carica di significati, canto del cigno di un cinema e di una generazione e disperata dichiarazione sullo spietato avanzare degli anni. Tutto sparisce, tutto viene dimenticato, niente ha più importanza. Hoffa, santo e mafioso, famosissimo “come Elvis negli anni ’50 e come i Beatles nei ‘60” diviene solo una figurina sbiadita in una foto in bianco e nero, irriconoscibile per le nuove generazioni (anche se lo stesso non si può dire dell’Al Pacino che lo interpreta, lui sì davvero indimenticabile).
L’inalberarsi del Frank ottantenne nel non voler rivelare all’FBI i segreti del passato sembra più un’abitudine ormai inutile al silenzio “d’onore” che una necessità. Come gli ricorda l’agente che lo interroga, le sue dichiarazioni sarebbero su gente morta da tempo, non colpirebbero più nessuno ma potrebbero alleviare le pene dei figli, e non solo di quelli delle vittime. Per tutto il film-vita l’esistenza di Frank-De Niro è seguita dallo sguardo giudicante e muto della figlia maggiore Peggy: solo lì è rimasto chiaro e incancellabile il segno del male fatto in passato dal protagonista, all’epoca per lui così inevitabile e necessario, che ha perso col tempo qualsiasi giustificazione (se mai ne ha avuta) e dimostra ora tutta la sua banale inutilità.