Non c’è etica in The Irishman: al bene non spetta nessun punto di vista nel racconto del male. Nell’ultima impresa di Martin Scorsese, il male è qualcosa di grigio, antiretorico, ordinario. Quello dei vicini di casa e degli uomini di fiducia, degli anelli del potere e degli “imbianchini” (Ho sentito che imbianchi case è il libro all’origine del film). Forse il riscatto del bene riusciamo a rintracciarlo solo nello sguardo dell’ultima figlia del protagonista: non parla quasi mai, osserva e capisce le azioni del padre e dei suoi sodali, si chiude nel silenzio per non lasciarsi contaminare dalla menzogna di una rispettabilità conquistata con il crimine, dalla banalità di un quotidiano incardinato nell’esercizio della violenza.
E non c’è epica: non c’è niente di affascinante in chi ha scelto il male perché gli altri posti erano occupati o più scomodi, non c’è la mitologia degli angeli caduti costretti alla criminalità per colpa di una società ostile, non c’è nessuna attrazione verso corpi anziani ringiovaniti artificialmente grazie a miracolosi effetti speciali. E se i volti di Robert De Niro, Al Pacino e Joe Pesci ritrovano giovinezze perdute, i movimenti sono già quelli incerti di coloro che hanno visto scorrere troppo sangue. Spingendosi nei territori di Robert Zemeckis e Steven Spielberg dove la tecnologia è al servizio dell’umanismo, Scorsese alza la posta e porta il cinema ai confini del possibile, (re)inventando, per questo film fortemente desiderato, un passato impossibile al fine di produrre qualcosa che ai nostri occhi sembra davvero impressionante.
È innegabile che lo stupore maggiore di The Irishman sia la vertigine di vedere gli attori di quarant’anni fa in un film d’oggi, come se fosse un contemporaneo a Il padrino o Toro scatenato ma con i nervosismi, i furori, gli abissi dei mean streets ormai evoluti per le contingenze anagrafiche della vita vera. D’altro canto, se il sensazionale ringiovanimento restituisce credibilità alla stagione di gloria dei personaggi (tra gli anni Cinquanta e Settanta), il più artigianale invecchiamento è altrettanto sbalorditivo. De Niro appare in scena per la prima volta molto più anziano di quel che è oggi, intento a narrare la propria autobiografia direttamente allo spettatore, intervenendo qua e là in un intreccio di due rievocazioni parallele, che solo all’inizio dell’ultima parte siamo in grado di decodificare.
Il lungo finale arriva dopo quello che in un film normale sarebbe stato il passaggio conclusivo. E si rivela un canto funebre sommesso e perturbante, l’apoteosi senile di una disperazione senza via d’uscita. A nulla servono le porte socchiuse: nessuno verrà mai a spalancarle per accogliere pentimenti sospesi e così il dolore resta dentro, tra le quattro mura di un carcere morale. Il tempo non esiste, trascorre senza che ce ne accorgiamo mentre si consuma nello spazio di un film, scritto da Steven Zaillian, che nell’arco di tre ore e mezza – mai un cedimento nel montaggio magistrale di Thelma Schoonmaker – abbraccia mezzo secolo di storia nazionale attraverso la vicenda di Frank Sheeran, “impiegato del crimine” (De Niro, incredibile per controllo), protetto dal boss Russell Bufalino (Pesci, in clamorosa rentrée dopo anni di silenzio) e per anni accanto al potente sindacalista Jimmy Hoffa (Pacino, magnifico come non capitava da decenni). Pieno di momenti da brividi, su tutti i faccia a faccia durante la festa per Frank e la telefonata alla moglie di Hoffa, ma nel complesso talmente monumentale, fuori misura, emozionante da meritare mille altre letture.