La storia produttiva di Vita da cani si intreccia in maniera indelebile con quella di un altro film sul mondo dell’avanspettacolo, il primo in cui Fellini vide il suo credito come regista insieme al maestro Alberto Lattuada, ossia Luci del varietà.

Nell’Avventurosa storia del cinema Lattuada narrava che quando lui e Fellini proposero la loro idea di un film sul mondo della rivista al produttore Ponti, lui la rifiutò dicendo che il soggetto non andava, e l’argomento non funzionava. Ma i due andarono avanti avventurosamente autoproducendo il loro film, per poi scoprire con sommo rammarico «a metà del lavoro di sceneggiatura… che Ponti aveva messo in cantiere Vita da cani con Fabrizi, la Lollobrigida e una turba di belle ragazze». Si accese una gara a chi sarebbe arrivato per primo nelle sale cinematografiche. Si narrava persino di una accusa di plagio pendente da parte di Aldo Fabrizi rispetto al soggetto della pellicola la cui sceneggiatura egli aveva steso insieme a Steno, Monicelli, Amidei, Palmieri, Maccari, e Novarese. A causa delle vicissitudini produttive tormentate di Luci del varietà fu infine Vita da cani ad approdare per primo sul grande schermo, nel settembre del 1950, più di due mesi prima di Luci del varietà, che uscì a dicembre dello stesso anno incassando solo 177 milioni di lire e decretandosi come completo fiasco commerciale rispetto all’exploit molto più performante al botteghino del film “gemello” Vita da cani.

All’epoca gli spettatori non apprezzarono troppo l’uscita così ravvicinata di due film tanto simili nella trama che seguivano pressappoco lo stesso canovaccio: le avventure nella provincia italiana del capocomico di una scalcinata compagnia di varietà, furtivamente illuminate dalla “polvere di stelle” del successo, prima inseguito come sogno irraggiungibile e poi subito riconsiderato come moneta con un prezzo troppo alto da pagare in termini di moralità. Eppure oggi siamo grati al cinema per aver avuto la lungimiranza di immortalare l’essenza di un mondo che è ormai scomparso, e che se allora era considerato come squallido e da dimenticare, oggi noi vediamo come romantico e ormai perduto.

Come ricordava Mario Monicelli stesso in una delle sue ultime conversazioni con il critico G. Fofi (Mario Monicelli, con il cinema non si scherza, ed. Cineteca): “Il cinema rubò a piene mani dall’avanspettacolo. C’erano molte dinastie familiari sul palcoscenico, che giravano instancabilmente l’Italia, la provincia. E c’era un personaggio particolare che li seguiva, che chiamavano il librettista… Una volta andai anche io insieme a Maccari, lo sceneggiatore, che era proprio specializzato nell’avanspettacolo, seguiva le compagnie e a seconda dei luoghi … si informava su cosa succedeva nella vita locale, i problemi, gli scontri politici le lotte, e adattava le gag e le battute alla situazione locale. Questi librettisti erano bravissimi e facevano un lavoro da grandi giornalisti, loro sì che conoscevano l’Italia, e infatti se poi facevano il cinema come Maccari – ma sono tanti gli sceneggiatori che avevano scritto o scrivevano per la rivista e l’avanspettacolo – erano una miniera di idee, di situazioni, di battute. Uno degli ultimi è stato Bernardino Zapponi”.

Non a caso Maccari era tra gli sceneggiatori di Vita da cani e chissà che non si debba proprio a lui una delle gag più esilaranti del film, la scena in cui Martoni/Fabrizi appena arrivato in città fa le veci del “librettista” appunto tentando di carpire informazioni dal barista del posto su “come la pensa la gente qui”, e tra detti e non detti, mugugni e sorrisini di convenienza, il misunderstanding è dietro l’angolo accompagnato da esilaranti risate “Come la pensano qui? Si insomma… Lei la pensa come me?... E perché c’è un altro modo di pensare? Ai compagni allora! Auguri Camerata!”

Il sottotesto politico della scenetta è un po’ serpeggiante in tutta la pellicola, che pare muoversi in un sentimento velato di rimozione della guerra civile appena archiviata, con l’esortazione spessissimo esclamata da Fabrizi, quel “Siamo tuti italiani! Vogliamoci bene” che risuona quasi come un rimprovero di un passato ancora troppo recente nel quale si era storicamente falliti come popolo nell’unità dei valori nazionali e umani.  Esortazione che ancora oggi in sala suscita troppe risate, probabilmente perché si appiglia ad una sorta di patriottismo che riesce ancora oggi a riconoscersi più nella capacità di “fregare il prossimo” (Fabrizi / Martoni nel film è maestro di “bidoni” in senso felliniano, dote di cui si serve per tirare a campare insieme a tutta la compagnia) che nella virtù di un comune sentire nazionalista. 

Oltre alla performance memorabile di Fabrizi che portò nel film molta della sua esperienza di vita e molti aneddoti personali vissuti ai tempi del varietà, la pellicola si alimentava di un nutrito contorno di figurine secondarie, soprattutto femminili, che spiccavano nella storia: la sospirante Delia Scala, la crudele Tamara Lees e Gina Lollobrigida in uno dei primi ruoli da protagonista, che ci delizia tra le espressioni da ingenua “campagnola” catapultata alla vita di città e performance esilaranti di soubrettismo del gran varietà.