Dalla formidabile cornucopia di L'avventurosa storia del cinema italiano. Da La dolce vita C'era una volta il West. Volume terzo, a cura di Franca Faldini e Goffredo Fofi, Edizioni Cineteca di Bologna, 2021, emerge al ricostruzione a tre voci (Fellini, Pasolini, Bolognini) della vicenda produttiva di Accattone - e di come abbiamo rischiato di non veder realizzato il capolavoro del 1961.

Ecco le testimonianze:

Rizzoli aveva una sua eleganza da personaggio disneyano, da Paperon de’ Paperoni. Ero riuscito a convincerlo di permettere a Pier Paolo di fare dei provini. Mi ha messo su una piccolissima troupe e Pier Paolo ha fatto dei provini a Franco Citti e ad altri. Io non avevo bisogno di vedere se Pier Paolo era capace, sentivo che l’amore che aveva per il cinema, e il suo talento di narratore, e il suo modo di essere poeta e di essere artista erano più che sufficienti. Purtroppo è accaduto quello che temevo, che questi provini sono stati fatti vedere. E sono cominciati i consigli, i suggerimenti, i pareri sfavorevoli. Io avrei dovuto avere più autorità, più convinzione; ma tutta questa campagna, e Fracassi soprattutto che mi diceva: “Tu con La dolce vita ti sei già alienato tante simpatie da parte del mondo cattolico” (ricordiamoci i due pezzi che fece Scalfaro, poi presidente della nostra Repubblica, contro La dolce vita proprio sull’“Osservatore Romano”: noi rimuoviamo tutto). E aggiungeva: “Adesso vuoi tenere a battesimo un personaggio come Pasolini…”.

Io riconosco la mia colpa, che è consistita in un allentarsi della voglia di combattere. Per i miei film avrei potuto farlo fino alla fine, ma dover lottare per dover affermare dei nuovi autori proprio dentro una società che aveva questo come suo scopo esclusivo! Poi mi chiamò Rizzoli, e così è finita. Questa piccola società, fatta così per gioco, aveva quell’anno in progetto cinque film, da me proposti, che finirono tutti a Venezia: Il posto di Olmi; Accattone di Pasolini; Banditi a Orgosolo di De Seta; Un giorno da leoni di Nanni Loy. L’unica cosa in cui sono riuscito è stata quella di far distribuire alla Cineriz un film spagnolo: El cochecito di Ferreri. Anche questo Rizzoli me l’ha rimproverato a lungo; ma, sentendosi in colpa per aver bocciato gli altri progetti, El cochecito l’ha preso. Insomma, mi ero stufato, non era il mio mestiere…

FEDERICO FELLINI

 

L’aver perso Accattone, l’aver subito questo arresto nella vitalità continua a colorare di una tinta di dolore tutta la vita: “Bocciato in regia”, come disse una livida persona sull’“Espresso”. Per fortuna è una mattinata calma. Lavoro, scrivo, ricopio, finché – come ci eravamo messi d’accordo ieri, alla proiezione della Giornata balorda – verso le dodici e mezza viene a trovarmi Bolognini. È bello, nutrito, reduce da un periodo di riposo, con la voce calda e un po’ roca nei toni falsamente fatui delle sue apprensioni, elegante nelle sue stoffe marroncine o grigie, inglesi, acquistate da Testa: il giovane vescovo-conte di un piccolo feudo toscano, capace d’indossare ora l’armatura – non troppo pesante – ora la tonaca – non troppo impegnativa. Sento per lui, vedendolo, nella confortante luce mattutina, un forte affetto: sono ormai anni che lavoriamo insieme. Mi trovo legato a lui come a un compagno di scuola. È venuto a parlare con me del suo prossimo film, sceneggiato da Pratolini, da un vecchio romanzo di Pratesi: mi chiede, nel suo consueto terrore della vigilia, qualche suggerimento, qualche modifica, o, comunque, la mia critica. Discorriamo a lungo, volentieri, perché si tratta di un lavoro veramente buono.

Mentre parliamo, gli occhi di Bolognini cadono sull’enorme pacco di fotografie del mio film, rimaste qui, come il deposito di un’alluvione, su un tavolino dello studio. Comincia a guardare pigramente, poi con interesse sempre maggiore, quasi preoccupato, poi con autentico stupore. Scopre il materiale del mio film e ne resta attonito: quelle facce dei miei personaggi veri – assurdi e veri, ridicoli e veri, disperati e veri – lo mettono di fronte al fatto inevitabile di sentirsi emozionato. So che lui è resistente a questi entusiasmi: la sa lunga, il vecchio cinematografaro, il vecchio uomo di gusto e, infine, il vecchio cattolico, perciò son tutto contento, e più forte mi sanguina dentro il dispiacere di averli perduti, tutti quei miei personaggi, tutti quei miei luoghi. Sono come un trapassato che svolazza, fatto ormai irrimediabilmente spettro, nei luoghi dov’è vissuto. Io, che da anni non soffro di nostalgie, sono rigettato, quasi per punizione, a soffrire ora di questa nostalgia, struggente e terribile.

Come Bolognini se ne va, con la sceneggiatura sotto il braccio, tranquillo e roco – dandomi appuntamento per stasera, se voglio, a una cena fredda da Bice Brichetto –, vado al telefono e chiamo Cervi. Caduta la produzione Fellini, sono, infatti, ripiegato sull’Ajace – Cervi e Jacovoni – come un figliol prodigo, con le carte scoperte. Cervi mi ha riaccolto pieno di buone intenzioni. È accorso subito Interlenghi, che doveva fare la parte di Accattone e poi, nella gestione Fellini, era caduto, lasciando il posto a Franco Citti, la ‘scoperta’. Interlenghi mi commuove molto. Non ho visto per anni un uomo preso da tanto entusiasmo per qualcosa come lui per questo film. Ora la mia posizione con lui è delicata, perché avevo sempre pensato a lui, è vero, come possibile protagonista. Poi, dovendo rinunciarci, sono stato costretto a scoprire un Accattone-vero, a cui mi sono però immediatamente affezionato, come uno scrittore a una sua invenzione stilistica, a una rima che gli sembri perfetta. Ora, riaccettare Interlenghi mi suona quasi un compromesso. Ma nel tempo stesso l’idea di lavorare con lui, così vicino a me nell’entusiasmo, così pronto e cosciente, mi dà una specie di sollievo.

PIER PAOLO PASOLINI

 

Pier Paolo aveva preparato questo film in modo straordinario, con il patema d’animo di un ragazzino e tanta umiltà. La Federiz glielo aveva accettato ma, una settimana dopo l’inizio delle riprese, la produzione giudicò qualitativamente insufficiente il materiale girato e interruppe la lavorazione. Pasolini era disperato. Lo andai a trovare a casa. Conoscevo il copione di Accattone ma non avevo mai visto, diciamo, il suo copione di regia. Me lo mostrò in quell’occasione assieme a tutte le foto dei luoghi e dei personaggi che aveva scattato. Era una cosa incredibile, commovente. Insomma, inquadratura per inquadratura, aveva creato un copione illustrato, un lavoro stupendo che era già il film, chiaro, così come sarebbe stato. Rimasi entusiasta, sbigottito che quella roba non fosse piaciuta. Dissi subito che avrei fatto il possibile per dargli una mano. Lo dissi convinto, e oltretutto con il cuore perché, da quando qualche tempo prima gli era scattato dentro il desiderio spasmodico di essere il regista delle sue cose – desiderio che agli inizi non nutriva affatto, anzi aveva un atteggiamento quasi di sufficienza nei confronti della regia – mi sembrava quasi di derubarlo di questa possibilità costringendolo a scrivere per il cinema.

La sua passione per la regia era nata improvvisa ed era andata montando poco a poco. Difatti, cosa che in precedenza non aveva mai fatto, aveva cominciato a venire al montaggio. In queste occasioni si metteva alle mie spalle e mi diceva: “Ma perché in questo punto non fai così?”. E magari erano suggerimenti che lì per lì mi sembravano assurdi, tanto che mi arrabbiavo e gli rispondevo: “Pier Paolo, ma insomma, esiste anche la grammatica, no?”. Tornando ad Accattone, lasciai Pier Paolo angosciato nel suo studio e mi precipitai da Alfredo Bini, con cui intrattenevo un rapporto molto amichevole perché avevo fatto per lui Il bell’Antonio, che aveva segnato il suo debutto come produttore ed era andato particolarmente bene, tanto che stavamo progettando un altro film, La viaccia. Devo dire che Bini capì subito la validità del copione che si ritrovava tra le mani, e non ebbe alcun tentennamento nel produrlo. Pier Paolo seppe da me, a casa di Bice Brichetto, dove lo raggiunsi subito dopo l’incontro con Bini, che avrebbe potuto realizzare il suo Accattone.

MAURO BOLOGNINI