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“The Furnace” a Venezia 2020
Australia occidentale, ultimi anni del XIX secolo e del regno di Vittoria. Per la prima volta si vedono dromedari solcare le dune dei deserti. Li hanno portati per la corsa all’oro i cammellieri “ghan”, dispregiativo usato dai bianchi anglosassoni in riferimento a chiunque provenga dal Medio Oriente o dal subcontinente indiano: Arabi, Indiani Sikh e Afgani come Hanif, che è riuscito a farsi accettare dagli Aborigeni e ora caccia con loro il canguro e il varano. Animali autoctoni (anzi endemici) del paese in cui vivono, a differenza di quello che cavalca e di lui stesso. Ma The Furnace di Roderick MacKay documenta uno strano caso di acclimatamento: oggi i dromedari che popolano quei deserti sono oltre un milione, e molti australiani hanno nelle vene sia sangue aborigeno che “ghan”.
“A prova d’errore” al Cinema Ritrovato 2020
Almeno due linee principali connettono A prova d’errore al resto dell’opera di Lumet: da una parte, quasi come in un seguito di La parola ai giurati, la sua poetica del confronto, reso ineludibile da ambientazioni chiuse che impongono ai personaggi una vicinanza conflittuale quanto proficua, verbale e se necessario fisica. La sua regia claustrofobica fa nuovamente convergere volti, gesti, anime, minando poco a poco l’impersonalità robotica imposta dai ranghi, dai protocolli militari e dalla tecnologia. Attacco a una distanza sempre più preoccupante dal mondo vissuto, nel cui ritratto l’autore riversa tutti i suoi dubbi sulla civiltà dell’immagine. Squarcio spaventoso su un mondo di completa atrofia comunicativa, incapace di arrestare una corsa verso l’autodistruzione programmata chissa da chi e perché, A prova d’errore tiene incollati alla poltrona e addirittura commuove per la sua ricerca disperata di un fuoco sotto la cenere, di un cuore ancora pulsante da qualche parte fra valvole e circuiti. Contro l’ironia kubrickiana, il grottesco senza appello, la presa d’atto del disumano e dell’assurdo come sostrato della civiltà nei secoli dei secoli, lascia con un grido d’aiuto e la speranza di una risposta.
I “frutti dell’ira”. La collaborazione tra John Ford e Henry Fonda
A sentire certi discorsi, chi non avesse mai visto un suo film potrebbe immaginarsi una presenza calda e stabile nella sua equanimità, un altro Gregory Peck. Invece Fonda è un interprete tutto emotivo, il cui algido autocontrollo si incrina continuamente di spiragli nervosi, rabbia, sconforto, in una dialettica vibrante che denuncia l’investimento totale nei ruoli prescelti, spesso (come ricorda ancora Horwarth) non esenti da un certo autobiografismo. Fonda non corrisponde mai astrattamente a un’idea o a una causa, ma le incarna con furia bruciante, ossessivamente, tornando a esplorarle da tutti gli angoli. Si pensi al tema dell’esecuzione imminente, rinviata, a volte scongiurata e a volte ineluttabile (da Alba fatale a La parola ai giurati): i biografi lo riconducono a un episodio traumatico dell’adolescenza, quando il padre lo portò quattordicenne ad assistere al linciaggio dell’afroamericano Will Brown durante i moti razziali di Omaha del ‘19.
“Alba di gloria” al Cinema Ritrovato 2020
C’è un’inquadratura ricorrente in Alba di gloria (Young Mr. Lincoln, 1939) che è un po’ l’emblema di tutto il periodo “rooseveltiano” di Ford e in particolare dei film con protagonista Henry Fonda: Lincoln seduto su una sedia, le gambe appoggiate a scrivanie o banconi, reclinato all’indietro e quasi in procinto di cadere. La stessa posa, solenne e perfino aggraziata nella sua innaturalità, che il duo renderà iconica qualche anno dopo in Sfida infernale (1946), dove Wyatt Earp si dondola mollemente sulla sua seggiola puntellandosi con gli stivali contro la staccionata della veranda. Questa buffa contorsione è spesso interpretata dagli esegeti fordiani come correlativo di una ricerca di equilibrio, inteso come quell’armonia sociale per cui l’eroe combatte facendo fronte alla minaccia brutale della wilderness che ancora si annida ai confini della città. Il distacco dalla figura di Earp, in questo film dall’approccio “plutarchèo” dove al monumento è sì restituita tanta umanità, ma esso resta pur sempre icona fondante di un èthos ed è quindi evidentemente dotato di risorse morali e intellettuali superiori al comune mortale, sta nel diverso grado in cui lo stesso protagonista affronta la mutazione dal barbarico alla civiltà.
Mae West la drama queen in “Non sono un angelo”
Quando gira Non sono un angelo, nel 1933, Mae West è appena al terzo ruolo cinematografico ma già all’apice della sua breve parabola. Dopo lo strepitoso successo di Lady Lou nello stesso anno, con perfino una candidatura all’Oscar come miglior film, la Paramount si sdebita dandole carta bianca. Se già nei due film precedenti West aveva avuto parecchia voce in capitolo – in Night after Night (1932) come coautrice non accreditata dei dialoghi, mentre Lady Lou trasponeva un suo lavoro teatrale – ora è unica soggettista, sceneggiatrice e dialoghista delle sconcertanti scene che interpreta, privilegio per pochi, ma che l’illustre casa di produzione non potè non concedere a chi in epoca di gold diggers era arrivata da sola a valere quanto un’intera gold mine.
“Mezzogiorno di fuoco” e l’impasse morale dell’antitesi eroica
Kane è il perfetto figlio di un’epoca di revisione già incipiente, gli anni Cinquanta in cui le fondamenta ideologiche del genere scricchiolano sempre più pericolosamente, gli uomini tutti d’un pezzo sono un ricordo e quelli che rimangono fanno spesso più paura dei cattivi. Non bestiale come i personaggi di Mann né antieroico come quelli di Boetticher, il miglior termine di paragone per lui è forse il pavido Dan Evans di Quel treno per Yuma (1957, di Delmer Daves). Se dovessimo scommettere su cosa di Mezzogiorno di fuoco fece uscire più dai gangheri Howard Hawks e John Wayne, peggio ancora dell’indifferenza della comunità o dello sceriffo salvato da una donna, punteremmo su questa atmosfera insopportabilmente smorta e monotona che è l’antitesi esatta dell’ariosità dell’avventura western, l’eroe dagli occhi azzurri ridotto a mendicante da parabola biblica che passa metà film andando di porta in porta a supplicare aiuto.
“Una squillo per l’ispettore Klute” e il paradigma della nuova femminilità
Può sembrare incredibile che Una squillo per l’ispettore Klute sia uscito nel 1971, un anno prima dello scandalo Watergate. Il film che apre la cosiddetta “trilogia della paranoia” di Alan J. Pakula, proseguita con Perché un assassinio (1974) e conclusasi con Tutti gli uomini del presidente (1976), esemplifica talmente bene il clima di insicurezza e sbandamento morale che siamo abituati a identificare col nome di Richard Nixon da lasciarci per un attimo spaesati quando ricostruiamo la cronologia. Questione dell’arbitrarietà di certe periodizzazioni, ovviamente: la paranoia dei primi anni ‘70 non nasce (solo) con Nixon, ma affonda radici intricate e complesse nei due decenni precedenti, legandosi solo in parte a macroscopici shock nazionali come l’omicidio Kennedy e il Watergate.
“Il fantasma dell’opera” e la Hammer. Il pianto del mostro e l’orrore del bello
Nella lunga storia di successo della Hammer Film Productions, Il fantasma dell’opera rappresenta forse il primo vero passo falso, almeno in termini commerciali. Distribuito in America dalla Universal, forte di un budget più cospicuo rispetto alla media dello studio inglese ed abbastanza “sulle mappe” da far pensare per qualche tempo a una possibile partecipazione come protagonista di Cary Grant, Il fantasma fece fiasco al botteghino, e ancora oggi è ricordato soprattutto “per singole sequenze da cui emerge il talento registico di Fisher” (Mereghetti). Al di là del disaccordo per la freddezza con cui è stato storicamente trattato, questo film riuscito a metà, piatto nella scrittura ma spesso folgorante nella messa in scena, appare oggi come un prezioso summa del percorso della Hammer fino a quel momento, fra le chiavi migliori per dischiudere i segreti del suo affascinante mondo.
Gli universi di “Jumanji”, Spielberg, e il sentire tecnologico
La misura del tempo passato emerge dal confronto con chi fra gli esponenti della “vecchia guardia” si è misurato di recente con il gaming. Pensiamo a Steven Spielberg, il cui Ready Player One, collocandosi a metà fra primo e secondo reboot, mette in scena un futuro completamente immerso tramite sofisticati visori in una variopinta e iperdinamica realtà virtuale, e dove la personalizzazione dell’avatar secondo le regole degli RPG consente di nascondersi in bella vista, proiettando un’immagine di sé che spesso non collima con la vera personalità del giocatore-utente. Pur molto più vicino ai nuovi Jumanji che non all’originale nella proposta narrativa, per la sensibilità che vi è profusa Ready Player One può dirsi un’opera di transizione fra queste due diverse epoche del sentire tecnologico.
“Memorie di un assassino”. Sulle tracce di Bong Joon-ho
Com’era prevedibile, lo storico trionfo di Parasite agli Oscar ha riacceso l’entusiasmo del pubblico italiano per Bong Joon-Ho. La famiglia Kim torna di prepotenza in cima al nostro box-office, ma c’è da sperare che il tremendo quartetto non basti da solo a saziare la voglia di conoscere questo grande autore contemporaneo. In circostanze così favorevoli infatti, quella che rischiava di passare sotto silenzio come l’ennesima riscoperta tardiva per pochi appassionati, potrà forse attrarre più attenzione attorno a un classico (da noi) passato in gran parte sotto silenzio. Non parliamo di Parasite ovviamente, ma dell’altro film di Bong in sala in questi giorni, giunto dopo tredici anni dall’uscita a colmare finalmente la lacuna della mancata distribuzione cinematografica in Italia col titolo Memorie di un assassino.
Bong Joon-Ho e l’eredità di “Il silenzio degli innocenti”
Non stupisce che un autore così politico e attento al racconto della stratificazione sociale come Bong Joon-Ho possa aver trovato un film-faro in Il silenzio degli innocenti, citato e rielaborato con tale insistenza da dare la sensazione di potervi ricondurre gran parte della sua opera come a una matrice originaria. Se quasi subito non sembrò casuale la scelta di inserirsi con Memories Of Murder (2003) proprio nel filone serial killer inaugurato dal film di Demme (per arrivare al limite del calco nella sequenza dell’autopsia, col rinvenimento di un corpo estraneo in un orifizio della ragazza assassinata) da allora il debito si è rinnovato film dopo film, informando molti dei principali tòpoi del cinema del sudcoreano.
L’eroico infantile – Speciale “Richard Jewell” IV
Pur nella delusione di vedere Richard Jewell fuori dai giochi, prevedibile in luce del clima politico hollywoodiano e del fiasco al box office Usa, il fatto che solo Kathy Bates sia stata candidata all’Oscar per la sua interpretazione della madre del protagonista ha perlomeno l’utilità di evidenziare come centrale un aspetto del film, l’essere genitori, il cui ruolo nel racconto di questa straziante vicenda reale ha radici profonde nella contorta anti-mitologia dell’eroe eastwoodiano. C’è indubbiamente una linea pedagogica nei film di Eastwood, rintracciabile in rapporti genitore-figlio dove la trasmissione dei migliori valori americani va a braccetto con un’eredità diversa, fatta di quella violenza e solitudine che quasi fatalmente sembrano appartenere al popolo statunitense.
“Le Mans ’66 – La grande sfida” tra saggio e agiografia
Le Mans ’66 scintilla al sole come le macchine di Ferrari e Shelby, con le loro linee morbide, la tenuta di strada, il maestoso ruggito del motore, e in linea con gli artisti che le progettavano si pongono i realizzatori: per lo spettatore stanco di correre, di casino, di falsità, di tutta quella gente, hanno in serbo un’esperienza tattile – dunque autentica – fatta di vernici lucide, sedili in pelle rossa che scricchiola, confortanti coperture in legno – le venature esposte, caldissime – e ancora orizzonti aperti, parole franche che schiacciano quelle meschine e interessate, respiro ampio che enfatizza il suo stesso carattere classico. E se serve una firma, oggi non c’è artigiano specializzato che sia pari a James Mangold per capacità di farci sentire a casa, al riparo dalla tempesta, nel rifugio del Cinema Di Una Volta.
“Waiting for the Barbarians” di Ciro Guerra a Venezia 2019
Due anni dopo, un po’ in sordina e quasi a fine corsa, Waiting for the Barbarians sbarca finalmente a Venezia 76, confermando – se non del tutto le aspettative, con un budget non all’altezza delle ambizioni e Guerra purtroppo trattenuto malgrado la tematica congeniale – almeno la piena appartenenza al percorso di Fitzgerald, cineasta “herzoghiano”, impervio, inseguitore del selvaggio e della follia e capace insieme di veementi affondi politici. Del romanzo di Buzzati, che via Zurlini non può – ed è un problema – non gettare sul film un’ombra anche visiva e scenografica, il film riprende l’idea di un frontierismo tanto futile quanto ineludibile, tanto esteriore quanto interiore, per mettere in scena, in una non meglio precisata provincia mediorientale del declinante impero britannico, una scoperta metafora storica sulla fallibilità di ogni tentativo di ergere muri fra gli esseri umani.
“The Painted Bird” di Vàclav Marhoul a Venezia 2019
Bellissimo da vedere, molto più difficile da giustificare: questo il sentore generale intorno al kolossal (pseudo)storico di Vàclav Marhoul su un bambino ebreo che attraversa gli orrori della seconda guerra mondiale. Il regista ceco guarda in senso ampio al grande cinema d’autore nordeuropeo, di cui ripropone ieratismi e preziosità visive ma soprattutto la forza d’urto dei suoi esponenti più famigerati. Nelle tre ore turgide, martellanti di immagini e parche di parole di The Painted Bird succede veramente di tutto, da mutilazioni genitali femminili che scommettiamo scalderebbero il cuore di Lars von Trier, a una sequela di animali agonizzanti che sembra uscita direttamente da quello gelido di Michael Haneke, ed è meglio fermarsi qui, prima di rovinare le molte altre perle che con forza inventiva (dovuta al romanzo di Jerzy Koziński) e di messinscena il film regala a piene mani dall’inizio alla fine.
“Blanco en Blanco” di Théo Court a Venezia 2019
Il nucleo centrale di Blanco en Blanco sono le sequenze dedicate all’allestimento della scena davanti all’obiettivo, che richiamano alla mente l’agghiacciante personaggio del fotografo forense interpretato da Jude Law in Era mio padre (2002), un quasi-entomologo pronto a manipolare i suoi soggetti inerti e se necessario a dar loro lui stesso il colpo di grazia. Lo stesso asfissiante senso di controllo, di spersonalizzazione del corpo impotente nelle mani del ritrattista (un Castro glacialmente perfetto) aleggia qui nei ritratti della bambina rigida, riluttante ai suoi comandi, corretta nella posa e nella mìse come una bambola di pezza, e nel finale in cui maniacalmente compone la foto-trofeo del massacro di tre nativi.
“Sodràsban” di István Gaál a Venezia 2019
Esordio nel cinema di finzione di István Gaál, con cui storicamente si fa iniziare la new wave ungherese, Sodrásban (“La corrente”, 1964) imbastisce sul delicato bozzetto impressionista dei primi minuti un coming of age di straordinaria concisione e forza espressiva, quella che a volte troviamo anche in certo cinema giapponese, capace con poche pennellate di svergognare le più laboriose costruzioni concettuali e lambire direttamente l’Assoluto. Inizia dal pomeriggio estivo in riva al fiume di un gruppetto di studenti diciottenni: nuotano, corrono, giocano a calcio, tentano un approccio amoroso. A un certo punto scattano una fotografia, dove – tutti coperti di fango, con smorfie divertite in faccia e bastoni in mano – potrebbero sembrare Peter Pan e il suo codazzo di Bimbi Sperduti. Neanche un’ora e mezza dopo, quando quella foto viene di nuovo inquadrata, a riguardarla sembrerà passata una vita.
“Ema” di Pablo Larraín a Venezia 2019
Più di uno spettatore qui a Venezia ha creduto di vedere in Ema una sterzata nel cinema di Pablo Larraín, tentazione comprensibile perché per una volta il regista cileno non mette in scena apertamente nè la Storia nè la biografia, e sostituisce al suo stile consueto, quell’inconfondibile ibrido semi-documentaristico che si ingrigiva mimetizzandosi da materiale di repertorio per toccare ancor più con mano i contesti esplorati, un elegante tocco arthouse che fa proprio in senso ampio il concetto di performance (danza, teatro, street art ecc) e lo pone apparentemente più nelle vicinanze del Suspiria di Guadagnino che non di Post Mortem o Tony Manero.
“Radiazioni BX: distruzione uomo” di Jack Arnold a Venezia Classici 2019
Radiazioni BX: distruzione uomo è spesso considerato l’esempio più ragguardevole di quell’esistenzialismo fantascientifico anni Cinquanta che si esplica nell’estraniamento della dimensione del quotidiano e del domestico. Più ancora di L’invasione degli Ultracorpi (Don Siegel, 1956), da cui lo distingue l’assenza di infiltrati e piani di conquista, fattori scatenanti ancora isolabili per quanto profondamente innestati nell’ordine sociale, è infatti questo il film che traccia una linea diretta fra il malessere del protagonista e la sua quotidianità, fra i disagi e pericoli che affronta e la conformazione – in sé immutabile eppure progressivamente sempre più inquietante – dell’ambiente domestico. Impercettibilmente, il film scivola dalla perdita di contatto col mondo conosciuto (ma anche grigio, scontato, qualunque) della prima parte, a quella che potremmo definire la “redenzione avventurosa” di quel mondo nella seconda, che ancora proprio nella casa, fra i suoi oggetti quotidiani restituiti a una dimensione di scoperta e applicazione di pensiero, ambienta un vero e proprio percorso di riappropriazione dell’humanitas, culminante in un finale del pari scientista e misticheggiante in cui Carey, riconosciuta come l’uomo del Rinascimento la vicinanza fra l’incommensurabilmente grande e l’incommensurabilmente piccolo, ed avendo concluso con Protagora che “la mente umana è misura di tutte le cose”, si annulla in un atto di pacifico mutuo riconoscimento, fondendosi letteralmente con l’universo.
“Apocalypse Now – Final Cut” al Cinema Ritrovato 2019
Come entra in questa storia la versione del 2019 denominata Final Cut, presentata dal regista in anteprima europea al Cinema Ritrovato? “Quella del ’79 continuava a sembrarmi troppo breve e Redux iniziava a sembrarmi troppo lungo. Una via di mezzo poteva essere la soluzione”. In realtà, l’impressione non è tanto quella di una “via di mezzo” quanto di una versione light, appena un po’ più snella, del mastodonte del 2001. Le integrazioni ci sono tutte, dal colloquio iniziale di Willard alla scena in cui Kilgore/Duvall perlustra il fiume Nung chiedendo al megafono che gli sia restituita la sua “bella tavola”, dall’incontro con una tigre al lungo monologo di Kurtz, fino al segmento coi relitti francesi della guerra in Indocina che completa l’Odissea fondendo insieme Lotofagi, Calipso e Circe. Si può concordare con le parole di Coppola e trovare in Final Cut il compromesso perfetto, o al contrario pensare che questo terzo montaggio non dia nè la soddisfazione immersiva dell’originale nè la trance da saturazione totale di Redux.