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“The Northman” e la fotografia (dell’immaginario) di oggi

Si può ammirare The Northman per la capacità di iniettare in un revenge movie norreno le qualità migliori del regista, dal puntiglio antropologico al senso pittorico per la messa in scena della violenza; o si può, come chi scrive, ritenere che le esigenze del genere e quelle dell’Eggers-pensiero non trovino quasi mai una sintesi davvero efficace, fallendo specialmente nel tentativo di conciliare la compiaciuta bidimensionalità mitologica del secondo con l’impulso delle grandi narrazioni hollywoodiane verso la psicologia e il character building

“Red Rocket” e la disillusione dell’altra America

Per quanto disillusa, l’America descritta da Baker resta prigioniera di una “coazione a sognare” veicolata dall’urbanistica, dal cinema, dalla tv-spazzatura, che la rende vulnerabile a tentativi di corruzione dall’esterno. Non a caso è frequente il tema dello sfruttamento sessuale e ancor più quello della pedofilia (le scene di adescamento). In un’unica gigantesca messa in scena del detto “non accettare caramelle dagli sconosciuti”, il grooming si fa metafora universale delle insidie tese a una provincia sperduta e bambina da un paese falsamente camuffato da bomboniera, popolato da coloratissime gelaterie e negozi di ciambelle sul cui sfondo fumano le ciminiere di scenari industriali da incubo.

“No Time to Die” manifesto radicale per il futuro di 007

In questo frangente storico e momento di chiusura di un cerchio, il personaggio ha acquistato un’interiorità e un profilo biografico, concedendosi ironici ammiccamenti queer, ma soprattutto il lusso ben poco “maschio” (nel senso lupesco dei predecessori) di amare. Su queste nuove fondamenta costruisce la sceneggiatura degli inossidabili Purvis e Wade coadiuvati dallo humour di Phoebe Waller-Bridge, solidissima come tutto il film ma a forte rischio di scontentare quella parte di fandom già incrinata dagli ultimi sviluppi umanizzanti. No Time to Die è lo 007 più corale di tutti i tempi, con James come cuore pulsante di personaggi che da segni di stile si fanno forse per la prima volta compiutamente rete sociale/affettiva.

“Dune” come mappa contemporanea del cinema di fantascienza

Il nuovo Dune non costituisce affatto un mero ripiegamento della fantascienza mainstream su logiche televisive, ma è al contrario un film che può e vuole rimettere sulla mappa contemporanea – quella mappa dai confini sfumati dove grande e piccolo schermo si avvicendano su terreno via via più comune – un’idea di messa in scena cinematografica radicale, ponderosa e dal grande impatto audiovisivo, capace contemporaneamente di mettere il dito su questioni sociopolitiche di scottante attualità e di farsi come in passato veicolo di grandi narrazioni. Mai come ora il successo non è assicurato. Mai come ora è necessario, giusto, auspicabile. 

“The Last Duel” spietato affresco di indistinzione morale

The Last Duel utilizza la violenza per dipingere uno spietato affresco di indistinzione morale, meschinità e bruto egoismo. In questo sempre più simile a Kubrick, la cui carriera a tratti sembra aver scientemente ricalcato (I duellanti/Barry Lyndon, Alien/2001). Scott tocca qui un vertice assoluto del suo nichilismo misantropico: uomini senza alcun eroismo giostrano come i satelliti in moto inerziale di un Potere gelido e vacuo, così assurdo da rasentare il comico (la grande, saggia prova di Affleck) in nome di un Dio che non c’è, o se c’è è un dio infantile, “più umano dell’umano” e sadico, il Commodo di Il gladiatore, il dio bambino di Exodus. Il miglior Scott dai tempi di American Gangster?

“Captain Volkonogov Escaped” a Venezia 2021

Dopo il piccolo dramma transgender The Man Who Surprised Everyone (2018), presentato qualche anno fa alla 75a edizione della Mostra del Cinema dove vinse il Premio Orizzonti per la migliore attrice, Natasha Merkulova e Aleksej Cupov tornano al Lido di Venezia sorretti da ben altri mezzi e ambizioni ma in perfetta coerenza con le tematiche sviscerate da quel film. Rivestito nei colori di una messinscena sontuosa da grande racconto storico, venato di action e di una sottile patina tragicomica, il conflitto fra un militare sedizioso e la Patria che non vuole più servire conferma i due registi-sceneggiatori (coniugi nella vita) come esploratori di dinamiche di dissenso in contesti oppressivi, intenti a illuminare e discutere il conservatorismo dei valori tradizionali del paese.

“Gli indifferenti” e lo spaesamento delle epoche

Com’è ovvio vista la distanza ormai quasi secolare che la separa dal romanzo, la nuova versione di Leonardo Guerra Seragnoli opera una più decisa ri-attualizzazione delle dinamiche borghesi narrate da Moravia. Apparentemente in contrasto con questo assunto, la scelta di non stravolgere più di tanto il testo originale denuncia da una parte l’allineamento alla fiducia dello stesso autore nella trasversalità del suo potere di disamina sociale, dall’altra – quasi a conferma della natura bifronte di questo classico del nostro novecento – è indizio decisivo della volontà da parte degli autori di porre in parallelo le classi agiate di due epoche lontane, tanto imparagonabili quanto accomunate da uno stesso frastornante, sismico senso di spaesamento.

“Run, Hide, Fight” a Venezia 2020

L’irruenza da b-movie di Run, Hide, Fight, che entra a gamba tesa nella discussione da una prospettiva conservatrice fino al midollo, ha il merito oggettivo di infrangere questo tabù, tentando con le armi viscerali del cinema di genere di restituire un senso degli eventi, una “visione” (in luogo di un puro “sguardo”) su perpetratori e vittime. Non è un caso che, prima di scatenarsi a cervello spento per tutto l’ultimo atto, per costruirsi dei presupposti psicologici l’action adrenalinico chieda soccorso all’horror, il genere che assieme a certa commedia demenziale ha meglio esplorato il lato oscuro dell’america adolescente. Sottolineiamo psicologici, perché ovviamente l’idea di un’origine ambientale della furia omicida non sfiora la sensibilità redneck dei realizzatori.

“Selva Tragica” a Venezia 2020

Come tante streghe del cinema contemporaneo essa mostra inizialmente un volto inerme: quello di una ragazzina spaventata, a giudicare dal vestito di lino bianco probabilmente una domestica, che insieme ad altri due fuggitivi si inoltra nella giungla al confine fra Messico e Honduras britannico (oggi Belize) inseguita con cani e fucili dal suo padrone inglese. Col suo dualismo arcaico e misterioso, il film di Olaizola espande la già ricchissima galleria dei ritratti femminili di questa edizione della Mostra, ricordandoci che le vie per la ricodificazione dei ruoli di genere sono infinite, e se necessario possono benissimo inserirsi nel solco di concezioni apparentemente svilenti e inattuali, sfruttarne il fascino, rivendicarne per sé la potenza immaginifica.

“Assandira” affresco ambizioso e onnivoro

Quello di Assandira è un affresco ambizioso e onnivoro, che mira (non senza qualche scricchiolio nelle giunture) a far convivere insieme varie tradizioni letterarie e cinematografiche: grande melodramma familiare sul fallimento rovinoso di un sogno di emancipazione nella modernità imprenditoriale, lo attraversa una chiara venatura verghiana, filtrata forse attraverso il primo Visconti di La terra trema (1948); è anche una detective story in odore di noir, dove alle scene ambientate nel presente in cui un ispettore interroga Costantino Saru sul misterioso rogo all’agriturismo “Assandira” che ha provocato la morte di suo figlio, si alternano quelle di flashback in cui lo stesso Costantino rivisita gli eventi passati, commentandoli con inconfondibile sapore hard boiled.

“Padrenostro” e lo sguardo dell’infanzia sulla Repubblica

I bambini ci guardano. Era vero negli anni ‘40, all’ultimo atto del Fascismo, era ancora vero nel 1976 quando il vicequestore Alfonso Noce scampò per miracolo al fuoco di mitra dei Nuclei Armati Proletari (morirono un terrorista e un agente della scorta). Oggi è suo figlio Claudio a raccontare quella storia. “Non un film sugli anni di piombo”: così qualcuno ha definito Padrenostro, con quella retorica insopportabile che vorrebbe chiudere l’arte in una campana di vetro (quante volte di Orizzonti di gloria, Apocalypse Now o La sottile linea rossa ci è toccato sentire “non un film sulla guerra, ma..”). A sviarli è lo sguardo intimo di Noce, che c’era, è per sempre coinvolto e naturalmente racconta dall’interno, pur finzionalizzandola, questa storia di tutti.

“The Furnace” a Venezia 2020

Australia occidentale, ultimi anni del XIX secolo e del regno di Vittoria. Per la prima volta si vedono dromedari solcare le dune dei deserti. Li hanno portati per la corsa all’oro i cammellieri “ghan”, dispregiativo usato dai bianchi anglosassoni in riferimento a chiunque provenga dal Medio Oriente o dal subcontinente indiano: Arabi, Indiani Sikh e Afgani come Hanif, che è riuscito a farsi accettare dagli Aborigeni e ora caccia con loro il canguro e il varano. Animali autoctoni (anzi endemici) del paese in cui vivono, a differenza di quello che cavalca e di lui stesso. Ma The Furnace di Roderick MacKay documenta uno strano caso di acclimatamento: oggi i dromedari che popolano quei deserti sono oltre un milione, e molti australiani hanno nelle vene sia sangue aborigeno che “ghan”.

“A prova d’errore” al Cinema Ritrovato 2020

Almeno due linee principali connettono A prova d’errore al resto dell’opera di Lumet: da una parte, quasi come in un seguito di La parola ai giurati, la sua poetica del confronto, reso ineludibile da ambientazioni chiuse che impongono ai personaggi una vicinanza conflittuale quanto proficua, verbale e se necessario fisica. La sua regia claustrofobica fa nuovamente convergere volti, gesti, anime, minando poco a poco l’impersonalità robotica imposta dai ranghi, dai protocolli militari e dalla tecnologia. Attacco a una distanza sempre più preoccupante dal mondo vissuto, nel cui ritratto l’autore riversa tutti i suoi dubbi sulla civiltà dell’immagine. Squarcio spaventoso su un mondo di completa atrofia comunicativa, incapace di arrestare una corsa verso l’autodistruzione programmata chissa da chi e perché, A prova d’errore tiene incollati alla poltrona e addirittura commuove per la sua ricerca disperata di un fuoco sotto la cenere, di un cuore ancora pulsante da qualche parte fra valvole e circuiti. Contro l’ironia kubrickiana, il grottesco senza appello, la presa d’atto del disumano e dell’assurdo come sostrato della civiltà nei secoli dei secoli, lascia con un grido d’aiuto e la speranza di una risposta.

I “frutti dell’ira”. La collaborazione tra John Ford e Henry Fonda

A sentire certi discorsi, chi non avesse mai visto un suo film potrebbe immaginarsi una presenza calda e stabile nella sua equanimità, un altro Gregory Peck. Invece Fonda è un interprete tutto emotivo, il cui algido autocontrollo si incrina continuamente di spiragli nervosi, rabbia, sconforto, in una dialettica vibrante che denuncia l’investimento totale nei ruoli prescelti, spesso (come ricorda ancora Horwarth) non esenti da un certo autobiografismo. Fonda non corrisponde mai astrattamente a un’idea o a una causa, ma le incarna con furia bruciante, ossessivamente, tornando a esplorarle da tutti gli angoli. Si pensi al tema dell’esecuzione imminente, rinviata, a volte scongiurata e a volte ineluttabile (da Alba fatale a La parola ai giurati): i biografi lo riconducono a un episodio traumatico dell’adolescenza, quando il padre lo portò quattordicenne ad assistere al linciaggio dell’afroamericano Will Brown durante i moti razziali di Omaha del ‘19.

“Alba di gloria” al Cinema Ritrovato 2020

C’è un’inquadratura ricorrente in Alba di gloria (Young Mr. Lincoln, 1939) che è un po’ l’emblema di tutto il periodo “rooseveltiano” di Ford e in particolare dei film con protagonista Henry Fonda: Lincoln seduto su una sedia, le gambe appoggiate a scrivanie o banconi, reclinato all’indietro e quasi in procinto di cadere. La stessa posa, solenne e perfino aggraziata nella sua innaturalità, che il duo renderà iconica qualche anno dopo in Sfida infernale (1946), dove Wyatt Earp si dondola mollemente sulla sua seggiola puntellandosi con gli stivali contro la staccionata della veranda. Questa buffa contorsione è spesso interpretata dagli esegeti fordiani come correlativo di una ricerca di equilibrio, inteso come quell’armonia sociale per cui l’eroe combatte facendo fronte alla minaccia brutale della wilderness che ancora si annida ai confini della città. Il distacco dalla figura di Earp, in questo film dall’approccio “plutarchèo” dove al monumento è sì restituita tanta umanità, ma esso resta pur sempre icona fondante di un èthos ed è quindi evidentemente dotato di risorse morali e intellettuali superiori al comune mortale, sta nel diverso grado in cui lo stesso protagonista affronta la mutazione dal barbarico alla civiltà.

Mae West la drama queen in “Non sono un angelo”

Quando gira Non sono un angelo, nel 1933, Mae West è appena al terzo ruolo cinematografico ma già all’apice della sua breve parabola. Dopo lo strepitoso successo di Lady Lou nello stesso anno, con perfino una candidatura all’Oscar come miglior film, la Paramount si sdebita dandole carta bianca. Se già nei due film precedenti West aveva avuto parecchia voce in capitolo – in Night after Night (1932) come coautrice non accreditata dei dialoghi, mentre Lady Lou trasponeva un suo lavoro teatrale – ora è unica soggettista, sceneggiatrice e dialoghista delle sconcertanti scene che interpreta, privilegio per pochi, ma che l’illustre casa di produzione non potè non concedere a chi in epoca di gold diggers era arrivata da sola a valere quanto un’intera gold mine.

“Mezzogiorno di fuoco” e l’impasse morale dell’antitesi eroica

Kane è il perfetto figlio di un’epoca di revisione già incipiente, gli anni Cinquanta in cui le fondamenta ideologiche del genere scricchiolano sempre più pericolosamente, gli uomini tutti d’un pezzo sono un ricordo e quelli che rimangono fanno spesso più paura dei cattivi. Non bestiale come i personaggi di Mann né antieroico come quelli di Boetticher, il miglior termine di paragone per lui è forse il pavido Dan Evans di Quel treno per Yuma (1957, di Delmer Daves). Se dovessimo scommettere su cosa di Mezzogiorno di fuoco fece uscire più dai gangheri Howard Hawks e John Wayne, peggio ancora dell’indifferenza della comunità o dello sceriffo salvato da una donna, punteremmo su questa atmosfera insopportabilmente smorta e monotona che è l’antitesi esatta dell’ariosità dell’avventura western, l’eroe dagli occhi azzurri ridotto a mendicante da parabola biblica che passa metà film andando di porta in porta a supplicare aiuto.

“Una squillo per l’ispettore Klute” e il paradigma della nuova femminilità

Può sembrare incredibile che Una squillo per l’ispettore Klute sia uscito nel 1971, un anno prima dello scandalo Watergate. Il film che apre la cosiddetta “trilogia della paranoia” di Alan J. Pakula, proseguita con Perché un assassinio (1974) e conclusasi con Tutti gli uomini del presidente (1976), esemplifica talmente bene il clima di insicurezza e sbandamento morale che siamo abituati a identificare col nome di Richard Nixon da lasciarci per un attimo spaesati quando ricostruiamo la cronologia. Questione dell’arbitrarietà di certe periodizzazioni, ovviamente: la paranoia dei primi anni ‘70 non nasce (solo) con Nixon, ma affonda radici intricate e complesse nei due decenni precedenti, legandosi solo in parte a macroscopici shock nazionali come l’omicidio Kennedy e il Watergate.

“Il fantasma dell’opera” e la Hammer. Il pianto del mostro e l’orrore del bello

Nella lunga storia di successo della Hammer Film Productions, Il fantasma dell’opera rappresenta forse il primo vero passo falso, almeno in termini commerciali. Distribuito in America dalla Universal, forte di un budget più cospicuo rispetto alla media dello studio inglese ed abbastanza “sulle mappe” da far pensare per qualche tempo a una possibile partecipazione come protagonista di Cary Grant, Il fantasma fece fiasco al botteghino, e ancora oggi è ricordato soprattutto “per singole sequenze da cui emerge il talento registico di Fisher” (Mereghetti). Al di là del disaccordo per la freddezza con cui è stato storicamente trattato, questo film riuscito a metà, piatto nella scrittura ma spesso folgorante nella messa in scena, appare oggi come un prezioso summa del percorso della Hammer fino a quel momento, fra le chiavi migliori per dischiudere i segreti del suo affascinante mondo.

Gli universi di “Jumanji”, Spielberg, e il sentire tecnologico

La misura del tempo passato emerge dal confronto con chi fra gli esponenti della “vecchia guardia” si è misurato di recente con il gaming. Pensiamo a Steven Spielberg, il cui Ready Player One, collocandosi a metà fra primo e secondo reboot, mette in scena un futuro completamente immerso tramite sofisticati visori in una variopinta e iperdinamica realtà virtuale, e dove la personalizzazione dell’avatar secondo le regole degli RPG consente di nascondersi in bella vista, proiettando un’immagine di sé che spesso non collima con la vera personalità del giocatore-utente. Pur molto più vicino ai nuovi Jumanji che non all’originale nella proposta narrativa, per la sensibilità che vi è profusa Ready Player One può dirsi un’opera di transizione fra queste due diverse epoche del sentire tecnologico.