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“È nata una stella” e il one-woman show di Judy Garland

Nonostante si tratti di un musical tardo, la colonna sonora di È nata una stella ha la stessa potenza delle grandi produzioni degli anni ’30 e ’40, accompagnandoci dietro le quinte dei teatri di posa, alla scoperta di luoghi e personaggi; esattamente come accadeva nei film di Busby Berkeley e nelle produzioni targate Warner. Basti pensare al numero musicale d’apertura in Gotta Have Me Go With You, ma soprattutto la struggente The Man that Got Away, pezzo che lascia intuire le vere potenzialità drammatiche e vocali di Esther-Judy. Ma in realtà è l’excursus metacinematografico di I Was Born In A Trunk la vera anima del film; cucita ad hoc per le straordinarie capacità d’interprete di Judy Garland la sequenza è un one-woman show pressoché unico nella storia del cinema americano. 

“Come to the cabaret!”: le canzoni di “Cabaret”

In Cabaret l’inquietudine della Germania di Weimar perde qualsiasi tipo di connotato storico, riflettendosi sulla gestualità, i costumi ed il trucco dei personaggi all’interno del Kit-Kat, in quella che è a tutti gli effetti una rinuncia alla “supposta realtà” (come direbbe La Polla) a favore di un sogno meravigliosamente grottesco che si replica sempre uguale a se stesso, come sembra suggerire il maestro di cerimonie (Joel Grey). Un sogno che, allo stesso tempo, è uno slancio di disperata vitalità in cui Brian tuttavia non si rispecchia. In questo senso il film è spaccato a metà: quello che accade dentro il cabaret e quello che accade fuori. Un dualismo incarnato dall’inquieta figura di Sally Bowles, che preferisce al grigiore del mondo esterno l’altrettanto cupo ma pulsante di vitalità mondo del cabaret.

Un canto epico per la violenza e la malinconia. “Il padrino” di Francis Ford Coppola

Illuminato dai chiaroscuri crepuscolari di Gordon Willis, Il padrino è il risultato di una perfetta sinergia tra lo studio system americano e quella ricercatezza autoriale tipica degli anni ’70, ma anche di un sentimento tipicamente italoamericano. Spietato Virgilio, Coppola ci accompagna in un vero e proprio inabissamento infernale tra gli anfratti di in una microsocietà, a cavallo tra New York e la Sicilia, in cui ritmi e rituali sono ben definiti. Un affresco che si anima grazie all’epica colonna sonora di Nino Rota, talmente potente da evocare ormai l’oggetto filmico anche in sua assenza: un risultato sorprendente dal momento che la partitura rischiò di non essere mai utilizzata (il produttore Robert Evans la considerava troppo intellettuale) e nonostante l’estromissione dagli Oscar per il presunto plagio al tema musicale di Fortunella (la cui colonna sonora era dello stesso Rota).

L’America europea di “Caravan” al Cinema Ritrovato 2018

Distribuito nel settembre del 1934, Caravan è la messa in scena di uno sfarzo fiabesco realizzato da una Fox ormai sull’orlo della bancarotta e che oggi è possibile rivedere grazie a un restauro messo a punto da MoMa a partire dall’unica copia al nitrato conosciuta. Praticamente impossibile da vedere per quasi ottant’anni, parafrasando le dichiarazioni del MoMa stesso, Caravan è un musical decisamente atipico per la sua epoca, motivo per cui probabilmente alla sua uscita fu un clamoroso fiasco per il mercato americano. Distante da qualsiasi tipologia di musical in voga in quegli anni, Caravan non rappresenta un’America reale o immaginata, ma la vecchia Europa del regista Erik Charrell le cui dinamiche erano troppo distanti per il pubblico statunitense del ’34.

Un incubo a colori: la musica di “Incontriamoci a St. Louis”

Riunendo musical e melodramma, due forme espressive a lui care (basti pensare alle atmosfere del successivo Qualcuno verrà), Minnelli, qui al suo terzo film, palesa l’intenzione di rappresentare un vero e proprio incubo made in Hollywood con uno stile sovversivo e atipico. Un’operazione che può essere sintetizzata anche dalle parole di Franco La Polla: “In fondo non credo che Hollywood sia stata la fabbrica dei sogni che tutti dicono. Si trattava piuttosto di incubi, solo che tra un incubo reale e uno fantasmatico era sempre preferibile il secondo”. Infatti, nonostante l’happy ending, Incontriamoci a Saint Louis non riesce ad esorcizzare l’angoscia post-traumatica del proprio incubo.

 

“Io e Annie” e la rapsodia di una musica essenziale

Su Io e Annie, vincitore di quattro Premi Oscar e acclamato dalla critica, dal 1977 in avanti è stato scritto di tutto, ma non abbastanza per quel che concerne l’aspetto musicale; attributo della filmografia di Allen mai sviscerato appieno. Film di passaggio, sperimentale (per certi versi, anche dal punto di vista musicale), Io e Annie presenta delle caratteristiche proprie in cui è possibile riconoscere l’inizio di quel personalissimo percorso tutto alleniano che prevede l’utilizzo di musica preesistente. Dopo la sua dirompente esplosione sul grande schermo con i “primi film, quelli comici” – per citare Stardust Memories, il regista fa in modo che il Dixieland lasci spazio a una rapsodia in cui si intrecciano movimenti che richiamano la musica classica ma anche musica popolare, quest’ultima connotata della doppia natura di standard jazz.

“Les Parapluies de Cherbourg” o il cinema stesso

Pur trattandosi di un’opera profondamente distante dagli stilemi del musical americano, Demy riprende alcuni stilemi del genere (basti pensare alla scenografie e all’uso del colore che ricordano i film di Vincente Minnelli e Stanley Donen), mettendo a punto una sceneggiatura in cui realismo e sogni creano un binomio inedito ed emozionante. Suddiviso in tre atti, il film è contraddistinto da una struttura narrativa del tutto simile al melodramma operistico con dialoghi recitativi e cantati in un fluire continuo che restituisce un pathos ancor più amplificato. Un intreccio semplice, ma ancor oggi capace di raccontare quel conflitto tra realtà e illusione che, dopotutto, è proprio del cinema stesso.

Collage di metafore. Anderson, Greenwood e altri vizi di forma.

Il cinema di Paul Thomas Anderson è come un collage infinito di metafore e richiami interni a significanti che, non necessariamente, hanno un significato; una di queste suggestioni è presente anche nella colonna sonora de Il filo nascosto, in cui una delle tracce di Jonny Greenwood porta il nome di un dettaglio presente in Vizio di forma: Puck’s Beaverton Tattoo. Un particolare, quello del “tatuaggio di Puck Beaverton che pulsava”, che sembra suggerire ancora una volta quella tendenza tipicamente postmoderna che Paul Thomas Anderson, tra l’altro ex studente di David Foster Wallace, ha fatto propria mettendo a punto uno stile narrativo che punta al disorientamento.

“Cabaret” e l’eterno, grottesco, meraviglioso ritorno dell’uguale

In Cabaret l’inquietudine della Germania di Weimar perde qualsiasi tipo di connotato storico, riflettendosi sulla gestualità, i costumi ed il trucco dei personaggi all’interno del Kit-Kat, in quella che è a tutti gli effetti una rinuncia alla “supposta realtà” (come direbbe La Polla) a favore di un sogno meravigliosamente grottesco che si replica sempre uguale a se stesso. In questo senso il film è spaccato a metà: quello che accade dentro il cabaret e quello che accade fuori. Un dualismo incarnato dall’inquieta figura di Sally Bowles, che preferisce al grigiore del mondo esterno l’altrettanto cupo ma pulsante di vitalità mondo del cabaret.

Audiovisione di “Shining”

Il tempo e la follia umana si annullano in quella che, a distanza di quasi quarant’anni, è ancora una delle messe in scena più potenti di tutto il cinema post-moderno. Shining torna al cinema, stavolta con montaggio diverso (una manciata di sequenza in più che Kubrick stesso decise di recidere per il mercato europeo), per travolgere ancora le platee con l’ormai famosa ”onda di terrore”. Dicitura che campeggiava sui manifesti del 1980 e che ha contribuito a consacrare il film come uno dei pilastri fondamentali del cinema horror.

Cinema Ritrovato 2017: “Blow-up” tra jazz e Swinging London

“Il nostro mondo più funesto apparirà, e sarà caro il disinganno quando tutto crollerà.” Riflettere su un classico del cinema contemporaneo come Blow-up partendo dal primo verso di una canzone dei Baustelle potrebbe apparire azzardato e indubbiamente anacronistico. Eppure Maya colpisce ancora, cattura alla perfezione quel senso ineluttabile per cui la percezione del reale è del tutto illusoria e la verità inafferrabile, che si coglie anche nel film di Antonioni. Un film in cui l’illusione, o la disillusione di realtà presente, è messa in atto attraverso richiami precisi tra cui la musica stessa.

Cinema Ritrovato 2017: “La corazzata Potëmkin” e Edmund Meisel

La sinfonia della nave da guerra più celebre del cinema irrompe nella cornice di una Piazza Maggiore viva e pulsante, con una proiezione musicata dal vivo dalla Filarmonica del Teatro Comunale di Bologna condotta da Timothy Brock. Sono passati ben 92 anni dalla sua prima proiezione, tuttavia La corazzata Potëmkin è sempre in grado di rinnovare lo stupore di chi assiste alla sua messa in scena.

New York Stories: “Un uomo da marciapiede”

“ Di notte le strade di New York riflettono la crocifissione e la morte di Cristo. Quando per terra c’è la neve e il silenzio è assoluto, esce dalle orrende case di New York una musica di così cupa disperazione e bancarotta da far accapponare la pelle.”

“Café Society”, questione di standard

Il film di Woody Allen continua a far discutere gli appassionati, come sempre divisi tra chi lo giudica prevedibile e coloro che lo trovano irresistibile. Cinefilia Ritrovata ci torna su, proponendo questa volta una riflessione sulle musiche e la loro funzione.