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“Spencer” e la fuga di Diana dalla luce
Spencer di Pablo Larraín, interpretato da una bravissima Kristen Stewart – sempre troppo sottovalutata – è un film di fantasmi che abitano luoghi e persone; come Anna Bolena, che appare negli incubi ad occhi aperti di Diana Spencer, come uno dei visitatori spettrali dickensiani – che aiutano Ebenezer Scrooge a intraprendere la sua redenzione – per suggerirle di scappare per salvare almeno la sua, di testa. Anna Bolena è Diana Spencer, le due sono legate allo stesso cappio: un matrimonio infelice, una tradizione oppressiva e annichilente, e l’impossibilità di potersi dileguare, perché l’unica legge che conta è la legge del palazzo, è la corona, è la sovranità disumana e insulare che il popolo vede e anela nei reali.
“Illusions perdues” e il cinema sinuoso di Giannoli
Xavier Giannoli mostra con grande abilità come il protagonista si trovi a dovere convivere con un sistema che si regge sulla corruzione, e come Lucien da inossidabile romantico, idealista, uno scrittore di poesie, diventi un giornalista che si vende al miglior offerente, al servizio della pubblicità, della visibilità, delle ostilità da copertina che ottemperano diversi scopi, la notorietà e la pubblicazione. Il processo di disillusione che attraversa Lucien è sempre più vivido e presente, un processo che approda in un’opera monumentale, la Comédie humaine, e una trasposizione precisa sia esteticamente che concettualmente.
“I Care a Lot” interroga il lato meschino dell’America
I Care a Lot è il ritratto marcescente di un regista britannico che compie l’autopsia del decadimento americano, un racconto in cui esistono solo personaggi negativi, in cui si tenta di rendere l’amoralità annichilente che sottende ogni individuo meno terribile; l’operazione di umanizzazione riesce sino a un certo punto, considerato che con questa manager spietata è quasi impossibile empatizzare. È dura potersi sentire vicini a una protagonista che truffa individui indifesi, che colleziona insidie e trappole sospese come trofei in una bacheca di diapositive sacrificali. L’elemento attrattivo sta proprio nell’intreccio, nei cambi di trama e di registro, nei colpi di scena che Rosamund Pike è abile nel sostenere, con una recitazione che oscilla tra la black comedy e il crime.
“Il processo ai Chicago 7” e la dinamite della democrazia
Il processo ai Chicago 7 alterna abilmente scene del processo a filmati d’archivio delle proteste, sessioni di strategia di difesa dell’avvocato liberale William Kunstler (Mark Rylance) e dell’accusa da parte del pubblico ministero Richard Schultz (Joseph Gordon-Levitt). Ma dove si incrociano i fuochi, dove le fiamme divampano e vibrano i roghi è in tribunale. Ogni parola è marchiata nel fuoco, è la matrice, la scintilla, il cherosene giovevole e venefico, capace di instillare dubbi, provocare accese discussioni, ringhiare il disprezzo per gli imputati, esplodere in atti circensi, è capace di offendere alla luce del razzismo istituzionalizzato, di leggere i nomi di chi perisce sotto un fuoco che brucia per davvero.
“Notturno” e la fenditura del reale
Non c’è un modo semplice di osservare e restituire realismo e veridicità a realtà e popolazioni molteplici che hanno subito ingiustizie e ingerenze pluridecennali. Il regista sceglie di affrancarsi da qualsiasi giudizio, non assolve, non discerne, cerca di non porsi come un’autorità insindacabile tra la realtà e la scena, anche quando il soggetto filmato non è evidentemente un attore, né tenta di esserlo (ma rischia di diventarlo). Rosi trova abilmente una fenditura in cui sottrae le considerazioni; lo fa pur rimanendo in prossimità del soggetto che filma, anche quando il soggetto non è un soggetto ma è un carcere, anche quando da carcere si fa teatro di un ospedale psichiatrico, anche quando l’elemento di confine, il concetto di frontiera è occupato da una madre yazida, un cacciatore in barca e una maestra elementare che fa terapia di classe.
“Monos” e l’adolescenza violenta
Monos è un racconto corale, un’elegia adolescenziale nel suo stato più bestiale, intrappolata in una logica di violenza. Come gruppo è capace di una violenza ricorrente, con un codice di condotta draconiano, crudele e sadico; l’incontro e lo scontro tra i corpi è persistente, al centro di Monos c’è la carne, adoperata come corpo contundente, come parte dell’indottrinamento, di un senso di appartenenza. La carne è parte di un rituale, primitivo, ancestrale, che li lega inesorabilmente l’uno all’altro, come un nodo stretto da un patto di sangue; è parte della loro sessualità che sfugge dalle gerarchie perché è dissoluta, aperta, libera. Monos è un racconto sensoriale, una favola apocalittica che seduce, ipnotizza e inquieta.
“Nessuno sa che io sono qui” e il cinema dell’assenza
Nessuno sa che io sono qui è un film drammatico di con protagonista Jorge Garcia, presentato al Tribeca Film Festival, dove Antillo ha ricevuto il premio come Miglior regista esordiente, prodotto da Pablo Larraín e da Netflix. Nessuno sa che io sono qui è un’affermazione solenne, tragica, la certezza di conoscere esattamente il proprio posto nel mondo, che non è una posizione fisica, ma più una collocazione impercettibile, invisibile in cui alcuni individui scelgono preminentemente di abitare. Memo è un uomo acclimatato a una vita solitaria, turbato anche dalle poche presenze che si alternano sulla sua isola, vive il suo esilio come se rivendicasse un debito con la società che lo ha usurpato, marginalizzato e annientato.
“Il buco” e la distopia verticale
La stratificazione strutturale che compone Il buco, diretto da Galder Gaztelu-Urrutia (in prima visione su Netflix), ottempera a molti compiti, uno dei quali è disincarnare i parametri con cui si sta al mondo. Goreng è un volontario di una sperimentazione detentiva. Il luogo in cui sceglie di auto-confinarsi è una prigione verticale suddivisa in piani; ogni piano ha una cavità al centro e ospita due persone. Al vertice di questo edificio domina il punto zero, ove l’amministrazione quotidianamente prepara un tavola imbandita che cala, livello per livello, attraverso una piattaforma. Il cibo è abbondante e potrebbe sfamare tutti ma, naturalmente, i prigionieri dei livelli più alti non impiegano molto a finire tutto, costringendo i meno fortunati a lottare per i resti.
“La Gomera” e la decostruzione dell’autentico
La Gomera è a tutti gli effetti un film di genere, che guarda e cita Alfred Hitchcock (realizzando un vero omaggio con una scena memorabile sotto la doccia) e Steven Soderbergh, tra giochi di ruolo e caccia al bottino in stile Ocean’s Eleven; è punteggiato di colpi di scena, possiede un umorismo oscuro esibito con le architetture del noir, con tanto di femme fatale, Gilda (dall’omonimo film di Charles Vidor con Rita Hayworth). Porumboiu non fa mistero delle sue influenze. Inoltre coglie tutti gli aspetti archetipici del noir e se ne serve per decostruirli, imboccando strade sterrate che spingono l’attenzione prima verso il sospettato, punto focale della narrazione noir, poi verso una lettura allegorica relativa alla storia post-comunista della Romania.
Carlo Verdone e la genealogia del comico italiano
Esiste una genealogia sulla scena comica italiana, un fil rouge che attraversa la città di Roma e che unisce quartieri, personaggi e attori, una genealogia che trova la sua discendenza nella Trastevere di Alberto Sordi, nel Rione Regola di Ettore Petrolini, nel vicolo delle Grotte di Aldo Fabrizi. Roma ha forgiato una scuola comica che da Fregoli ha plasmato anche la generazione più recente composta e abitata da un regista e attore nato e cresciuto nello stesso rione di Petrolini: Carlo Verdone. Figlio di una Roma curiale, ferina, funambolica, ha come punto di osservazione è il mitologico bar Mariani in Via dei Pettinari, da cui convergevano individui singolarmente ordinari tra cui burini, imbranati, dandy, bulli, che hanno ispirato Verdone nella costruzione del suo dispositivo comico.