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Lo spettacolo del noir. “So che mi ucciderai” di David Miller

L’inizio sembra anticipare un certo cinema di Robert Aldrich, cioè quei drammi ambientati nel mondo dello spettacolo – pensiamo a Il grande coltello o Quando muore una stella – con la messa in scena dell’affascinante ma spietato mondo di Broadway. La prima parte ricalca gli schemi del mélo, ma senza mai scadere nel banale, con la narrazione dell’incontro fra i due protagonisti, l’innamoramento, la luna di miele in una splendida villa sul mare, la vita nella loro ricchissima abitazione. Poi, quando entra in scena Gloria Grahame, So che mi ucciderai si incanala più decisamente – ma senza soluzione di continuità – nei suddetti canoni del noir: Irene è la dark lady.

“Trapped” esce dall’oblio. Il noir cult di Richard Fleischer

Fleischer, in soli 79 minuti e con un budget visibilmente ristretto, riesce a creare un riuscito incrocio fra gangster-movie e poliziesco degno di altre opere coeve e più celebri – pensiamo a I gangsters di Robert Siodmak – mettendo in scena vari personaggi e stilemi del genere, con una descrizione minuziosa del milieu criminale. Il merito va ad una sceneggiatura intricata, ricca di doppiogiochisti e colpi di scena, e soprattutto ad una regia quadrata, senza tanti fronzoli né orpelli stilistici ma efficacissima: che sarà poi uno dei tratti distintivi della poetica di Fleischer nei suoi film più celebri, dal suddetto Le jene di Chicago a Sabato tragico, da Frenesia del delitto a Lo strangolatore di Boston.

Il noir e i peccati borghesi. “Il corvo” di Henri-Georges Clouzot

Il cinema di Henri-Georges Clouzot è all’insegna del noir, declinato in varie forme, ma sempre focalizzato sulla psicologia dei personaggi: Il corvo, incentrato su una descrizione al vetriolo della borghesia dove covano misfatti e segreti inconfessabili, è un grande classico del cinema francese, un film dotato di una narrazione e di un linguaggio assolutamente moderni e in grado di parlare agli spettatori di ogni epoca – in fondo, la piccola borghesia cattiva e viziosa non è poi lontana da quella messa in scena anni dopo da un altro maestro come Claude Chabrol.

Quando la slapstick comedy si fa meta-cinema. “La palla n. 13” di Buster Keaton

La palla n. 13 è uno dei film della maturità di Buster Keaton, che trova un equilibrio apollineo fra i canoni della slapstick comedy e una riflessione meta-cinematografica per niente banale. In questo mediometraggio il geniale comico mette in scena alcuni temi ricorrenti della sua poetica, come l’amore impossibile e una continua lotta contro l’ostilità delle circostanze, temi che si esplicano in una serie continua di gag irresistibili accompagnate da una musica vivace e onnipresente. C’è quindi una ragazza (che come tutti i personaggi è senza nome) di cui è innamorato e che cerca di conquistare, frenato dalla timidezza e dalla povertà. E c’è il cattivo di turno, a sua volta innamorato, che cerca di mettere il protagonista in cattiva luce.

“Il corridoio della paura” fra realtà e alienazione

Il cinema di Samuel Fuller non lesina sulle scene di violenza, fisica o psicologica: nel noir La vendetta del gangster fa uccidere una bambina, nel western La tortura della freccia sottopone il protagonista al supplizio del titolo, nei war movie rappresenta le battaglie in tutto il loro crudo realismo, nel thriller/noir Il bacio nudo mette in scena un pedofilo (un argomento tabù in quegli anni), giusto per fare alcuni esempi. Così, ne Il corridoio della paura c’è una violenza che talvolta si manifesta palesemente – per esempio nei cruenti scontri fra i pazienti o con gli infermieri, nell’aggressione di Barrett per mano di un gruppo di donne ninfomani, o ancora nella lotta finale del protagonista con l’assassino – mentre altre volte rimane sottesa ma sempre vibrante, una violenza psichica pronta a esplodere in ogni scena.

Amore e malavita nella Parigi ottocentesca. “Casco d’oro” di Jacques Becker

Casco d’oro è sia un film che è affresco di un’epoca, sia un film dove ci sono i personaggi basilari del noir francese (e non solo): la prostituta, a cui dà vita una bellissima e intensa Simone Signoret in uno dei più grandi ruoli della sua carriera (prima ancora de I diabolici di Clouzot), l’ex galeotto che vuole ricominciare una vita onesta ma è travolto dagli eventi (col volto inconfondibile dell’italo-francese Reggiani), il boss (un grande Dauphin), il protettore, il poliziotto corrotto e tutta una parata di sgherri coi volti giusti. Come accadrà in Grisbì (e parzialmente anche ne Il buco), il cinema noir di Becker è improntato al cherchez la femme, poiché è sempre l’amore per una donna a muovere i personaggi e a guidarli nel drammatico destino, mentre la colonna sonora di Georges Van Parys suona e palpita insieme a loro.

“La taverna della Giamaica” e il congedo gotico di Hitchcock dall’Inghilterra

La taverna della Giamaica è forse l’unico film in costume di Hitchcock insieme a Il peccato di Lady Considine. Le ambientazioni e i costumi sono curatissimi e insoliti, poiché una taverna popolata da un insieme pittoresco di volti patibolari non è quello che ci aspetteremmo dal maestro del brivido; e inconsuete sono l’elegante villa del giudice e le coste dove agiscono i pirati; così come la brughiera, immersa nella nebbia e attraversata da un calesse, sarebbe più tipica di un film gotico. Ma Jamaica Inn, in fondo, è proprio un film gotico o meglio un incrocio, sapientemente dosato, fra il noir, il gotico e il dramma in costume.

“Il caso Mattei” di Francesco Rosi tra i gangli del potere

Con Il caso Mattei lo stile di Rosi raggiunge l’apice del verismo, trasformandosi in una sorta di cinéma vérité, magistralmente unito a una narrazione lucida, serrata, accurata e ricca di pathos. La sceneggiatura affianca infatti a tutta la parte con Volonté (che è comunque quella maggioritaria) le indagini successive alla sua morte, e ritaglia anche uno spazio per lo stesso Rosi, che entra in scena come attore nel ruolo di se stesso: nel ruolo cioè di un regista che sta facendo ricerche sulla vita e la morte di Mattei, creando una sorta di piacevole cortocircuito fra cinema e documentario, in una molteplicità di linguaggi cinematografici; c’è ad esempio anche un discorso di Ferruccio Parri, e gli attori professionisti si affiancano a personaggi nei panni di loro stessi.

Tra elegia e realismo. “Concrete Cowboy” e il western contemporaneo

Il western, più che un genere, è uno stile cinematografico: quasi uno stato d’animo, che può benissimo essere ambientato fuori dagli Stati Uniti e svolgersi ai nostri giorni – non necessariamente nell’Ottocento – e che si presta sovente a contaminazioni con gli altri generi. L’opera prima di Ricky Staub, Concrete Cowboy (2020), ne è un esempio, essendo una sorta di western urbano contemporaneo, ma molto sui generis, dove la demitizzazione della Frontiera è inscindibile dal dramma umano e da una sorta di bildungsroman (il cosiddetto romanzo di formazione).