“Kinds of Kindness” speciale II – L’inconscio tumultuoso della società

I personaggi di Lanthimos non sono padroni delle proprie azioni, sono schiavi delle loro angosce che li perseguitano anche nell’intimità dell’atto sessuale, rappresentato dal regista sempre come un momento disturbante in cui si esercita un rapporto di potere. Se è vero che l’arte è espressione dell’inconscio tumultuoso della società in un dato momento storico, allora si può dire che Kinds of Kindness sia il riflesso spaventoso del presente, un incubo in cui prendono forma le nostre paure più grandi.

“Kinds of Kindness” speciale I – L’hula hoop d’autore

La libertà che Lanthimos si è giustamente conquistato viene investita in un interessante esercizio dove alcune delle modalità di rappresentazione del regista vengono scritte e riscritte provando delle varianti. Senza spostarsi dal suo naturale baricentro (siamo difatti a un ritorno al suo cinema “greco”), Lanthimos continua un percorso di sperimentazione teso tra familiarità e diversione. Fa l’hula hoop? Potrebbe essere una metafora calzante?

Ripartire (ancora) dal desiderio – Speciale “Povere creature!”

Il motore primo di Frankenstein è il fallimento genitoriale: dopo nove mesi passati a creare il mostro e a dargli vita, il dottore rifiuta il suo ruolo di genitore e la possibilità di provare empatia verso il neo-nato, scappando dalla sua stessa creazione. Povere creature! è profondamente debitore al romanzo di Shelley. La vicenda parte dalla premessa opposta e si chiede: cosa sarebbe accaduto se il genitore del mostro si fosse assunto la responsabilità di ciò che ha creato? E cosa accadrebbe se la creatura fosse una donna?

Dove l’eccesso è la norma – Speciale “Povere creature!”

Un giorno Dio creò l’uomo e fu il primo sguardo. Al suo meglio il cinema ci restituisce uno sguardo sul mondo come se fosse la prima volta che lo vediamo. In Povere Creature! l’identificazione con lo sguardo della “idiota” Bella Baxter permette a ogni nuova scena un’esperienza di questo tipo in una screwball post-umanista che si fa grande destrutturazione delle colonne portanti su cui si regge la convivenza umana: famiglia, denaro, matrimonio, identità, uomo, donna, Dio, umanità. Nulla può più rimanere stabile, tutto eccede e così si aprono nuove vie all’immaginazione.

Tutto è femmina – Speciale “Povere creature!”

Come la Barbie di Greta Gerwig perde di punto in bianco serenità e innocenza risvegliandosi dal sogno zuccheroso di Barbieland per spostarsi con urgenza in quello reale, così la Bella di Lanthimos risponde agli stimoli della vita con stupore e logica, meraviglia e disperazione, dedizione e iniziativa. Al progressivo crescere della consapevolezza il suo sguardo si fa informato, i modi armoniosi e un obiettivo prende forma, eterno approdo di ogni neo-adulto che si domanda: “per cosa sono qui?”.

“Alps”. L’uomo nell’epoca della sua riproducibilità tecnica

Lo spazio è un circuito chiuso, il tempo non ha durata e non sono concesse verticalizzazioni, né profondità di campo. Gli ambienti in cui si muove la macchina da presa sono sale di tortura fisica e psicologica in cui i personaggi diventano silhouette senza vita al centro dell’esperimento di un sadico che si chiede cosa ci sia di autentico in questo mondo congelato. Lanthimos realizza così un claustrofobico dramma surreale carico di humour nero, ambientato in un tempo senza social in cui le interazioni tra gli esseri umani si riducono a corpi da indossare e da vivere.

“Dogtooth” e la pedagogia dell’orrore  

Proprio come in un esperimento scientifico, Lanthimos costruisce un incubo domestico in modo programmatico, azzerando il sentimento familiare, seguendo la logica della coazione a ripetere – di gesti, neologismi, vuoti cerimoniali – e basando il potenziale eversivo dell’affresco paranoico sulla semplice coordinata dentro-fuori: all’interno delle mura domestiche vige l’ordine e la disciplina, fuori imperversa il regno del disordine e della corruzione. Del tutto privi di giudizio critico sono i tre figli, due femmine e un maschio, a causa del metodo (dis)educativo che reinventa per loro una nuova lingua, modifica i significati delle cose e annulla il concetto di empatia sociale.

“La favorita” e il potere come afrodisiaco

Nell’Inghilterra illuminista che gli sceneggiatori Deborah Davis e Tony McNamara vogliono raccontare, l’uomo è brutalmente schernito e privato di qualunque forza decisionale nelle meccaniche del potere; l’unica funzione del maschio è quella di morire al fronte oppure oziare a palazzo nella vana speranza di ottenere favori dalla regina Anna, divisa tra le attenzioni della gelida Lady Sarah e della spregiudicata Abigail. Uno scenario a dir poco antitetico rispetto alle gerarchie sociali del Settecento fedelmente rappresentate in Barry Lyndon, ma i contrasti con il film di Kubrick non si fermano qui: alla riproduzione pittorica del regista statunitense Lanthimos oppone una violenta deformazione dello scenario e dei personaggi in gioco, una sorta di caricatura grottesca del Secolo dei Lumi espressa dalle geometrie visive della macchina da presa, che come una telecamera a circuito chiuso si annida nelle sale del potere e rivela allo spettatore i suoi segreti più sordidi.

“La favorita”, una seducente gabbia dorata

Ipnotico, seducente, a tratti inquietante, Lanthimos non risparmia allo spettatore nessuna delle bassezze morali e delle volgarità carnali che si perpetravano all’interno delle regge settecentesche. Ci sentiamo come intrappolati, obbligati ad assistere al ripugnante processo di decomposizione del corpo della regina – martoriato in egual modo dalla gotta e dall’ingordigia – e allo sconfinato arrivismo dei cortigiani, disposti a vendere la propria dignità ed i propri corpi pur di beneficiare dei favori reali. Una gabbia dorata resa claustrofobica e asfissiante da uno smoderato utilizzo del fish eye attraverso il quale il regista e il suo direttore della fotografia Robbie Ryan, ci costringono ad assistere al decadente spettacolo di miseria umana che ci si palesa davanti.

“La favorita” e la vocazione popolare di Yorgos Lanthimos

Lanthimos si concede il gaudio di abbandonare le vesti di macabro artigiano di sinistri affreschi umani, per adagiarsi nei panni di uno zelante ed arguto cantore di vizi borghesi. Depositando le consueta armatura rivestita di ruvida asprezza, l’autore approda ad una dimensione giocondamente satirica, palesandosi attraverso una riconoscibile dose di grottesca follia, ma risultando ammansito da una limpidezza espositiva che fino ad ora gli pareva sconosciuta. L’approdo a questa nuova dimensione viene coadiuvato dalla magniloquenza di un apparato tecnico mai così sofisticato: le scenografie ed i costumi sontuosamente ricostruiti secondo i fasti dell’epoca ed il naturalistico compendio dei contrasti luminosi di una fotografia che intercetta gli echi kubrickiani di Barry Lyndon.