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“The Wolf of Wall Street” compie dieci anni. Un film punk?
Qualcuno ha definito The Wolf of Wall Street un film punk, più che altro per la sfrontatezza dei contenuti. Tuttavia, se di punk si può parlare, non è certo per via del contenuto, casomai per come viene formalizzato. A livello musicale non è la presenza di una canzone punk in senso stretto a concorrere alla definizione, quanto il ricorso alle cover, che scomodano citazioni musicali o cinematografiche, polverizzando i modelli di riferimento con un allarmante furore iconoclasta.
“Lady Snowblood” 50 anni fa
Lady Snowblood, un revenge movie in chiave chanbara dai colori pop, ricoperto da quegli schizzi, o meglio, spruzzi di sangue che avevano iniziato a sgorgare nella scena finale di Sanjuro (Kurosawa, 1962), è un film che insegue il fumetto ed è tratto da un manga gekiga del 1972-73 che a sua volta insegue il cinema, disegnato da Kazuo Kamimura, il “pittore dell’era Showa”, divenuto celebre per le sue eleganti figure femminili cariche di erotismo, talmente cariche che Lady Snowblood viene considerato seinen (v.m. 18, diremmo noi).
Godard l’irriducibile
A colpi di inquadrature, o meglio di accostamenti tra inquadrature, si è scagliato contro le forme del cinema classico, il capitalismo, il pensiero unico. Di conseguenza, spezzando le catene, Godard ha creato un nuovo modo di fare cinema e un nuovo cinema, con uno spettatore-autore che colma le fratture elaborando i propri significati. Immagine e suono in costante dialogo, dove il suono è anche parola pronunciata e la parola scritta è anche immagine, e in cui il gioco di parole è una pratica del pensiero, come il montaggio.
“Un mercoledì da leoni” e l’onda perfetta
Come Moby Dick, amatissimo dal regista, anche Un mercoledì da leoni racconta di una duplice caccia: se nel romanzo Achab dà la caccia alla balena e il narratore quella balena cerca di catturarla sulla pagina, in Un mercoledì da leoni i protagonisti danno la caccia all’onda perfetta e Milius cerca di restituirla su pellicola. All’epoca dell’uscita nelle sale il film è riuscito ad alienarsi sia pubblico che critica, salvo poi diventare un cult con il passare del tempo. Ancora oggi il giudizio sul regista è contrastante, tanto che alcuni lo chiamano reazionario, altri anarchico. Non è questo il punto, ovviamente, perché il nome giusto per Milius è un altro: chiamiamolo Ismaele.
JLG/JLG – Autoritratto ad aprile
Godard non parla di cinema: parla cinema. Sembra che non gli importi rispondere con puntualità alle domande di Lionel Baier (in diretta su Instagram qualche giorno fa, e ora reperibile su Youtube) non più di quanto potrebbe importargli filmare un bel campo/controcampo rispettando la regola dei 180°. Se John Ford faceva il montaggio in macchina, Godard parla facendolo direttamente in testa. È spiazzante, perché si tratta di un montaggio discontinuo che attinge ad un archivio di figuratività profonda, tra una citazione e un’immagine evocata, tra una scena del Godard privato e un ricordo del Godard critico. Al tempo della pandemia, di sicuro lo scarto tra un taglio e l’altro assicura l’immunità dal “virus della comunicazione”, come lui stesso l’ha definito.
I Doors secondo Oliver Stone
Approfittando della visita in Italia di Oliver Stone, torniamo su uno dei suoi film meno celebrati, The Doors. Stone vagheggiava un film imbevuto di Doors sin dagli inizi della sua carriera cinematografica, tanto che Break, una sceneggiatura del 1969, abbinava una vicenda sul Vietnam, guerra vissuta dal regista in prima persona, alle musiche del gruppo; il ruolo del protagonista doveva essere di Jim Morrison stesso. Alla luce dei film poi effettivamente realizzati e tenendo presente l’autobiografismo come cifra autoriale del regista, è come se l’esperienza del Vietnam, rielaborata tardivamente secondo una modalità tipica del cinema statunitense, si fosse sdoppiata in un campo/controcampo tra Platoon e The Doors: lì il dramma reale della coscienza, qui il dramma onirico dell’inconscio.
“Le livre d’image” folgorante come un ordigno
Pochi giri di parole: Le livre d’image è la bibbia del montaggio inorganico. Tutto è materiale pulsante, il contenuto è inseparabile dalla forma. Archeologia di frammenti tra passato e presente che interroga il mondo del possibile, Le livre d’image è un film che produce film e dunque attiva mente e corpo di spettatori-autori. Troppo accade durante i novanta minuti della proiezione perché il materiale possa essere interamente digerito: ogni taglio di montaggio spalanca un abisso tra le immagini quasi sempre manipolate, la traccia audio è spesso stereofonica con sovrapposizioni di frasi; abbondano, come di consueto, i cartelli, mentre i sottotitoli, volutamente lacunosi, tratteggiano tutt’al più una sorta di sintesi di quanto accade, non certo una sua traduzione fedele. Lo shock che ne deriva è folgorante come un ordigno.
Il suono del kairos e il segreto della campana
Secondo Tarkovskij l’artista deve farsi servo dell’assoluto e condividerne la rappresentazione, senza alcuna glorificazione finale. Teurgia a parte, la riflessione del regista si lega alla prima avanguardia, che nelle sue varie formulazioni mirava a stimolare una sorta di completamento del film da parte dello spettatore. Per indurre una reazione autentica da parte di chi osserva, per Tarkovskij bisogna prescindere dalle convenzioni stilistiche, che equivalgono a pregiudizi, proprio come avviene in Andrej Rublëv, in cui etica ed estetica si compenetrano. La specificità del mezzo cinema deve consistere in una vera e propria scultura del tempo (in un certo senso nella sua cattura fattografica all’interno dell’inquadratura), con tutte le implicazioni filosofiche che ne derivano. Si potrebbe dire che con l’avvio della campana, a sua volta metafora di un’icona, Andrej Rublëv arriva persino a simulare l’esperienza della rivelazione divina
“Who’s Bad?”. Martin Scorsese e il videoclip
Si sa che per Michael Jackson è evidente il fenomeno del crossover, vale a dire il fatto che la sua musica si rivolga anche o soprattutto ai bianchi. Zombificazione compresa, nel video di John Landis la questione del “colore” della sua musica resta marginale e dunque ambigua, ma in quel caso si ha a che fare con un contesto middle class. In Bad, al contrario, Scorsese affronta la questione di petto e inserisce Michael Jackson in un contesto disagiato e dichiaratamente nero, in cui le dinamiche razziali e classiste pregiudicano l’autorealizzazione dell’individuo. Ed ecco che Darryl, vero e proprio pesce fuor d’acqua, tenta di autolegittimarsi sostenendo che si può essere bad senza rassegnarsi a ricalcare il solito pregiudizio razzista sull’inclinazione delinquenziale, ma dando forma alle proprie energie intellettuali e creative; ovvero si può essere black anche elaborando una proposta musicale che piace ai bianchi.
“Gimme Danger” e la dottrina del rock and roll
Intriso di quell’esaltato estremismo che soltanto l’adolescenza sa infliggere senza tollerare compromessi, Gimme Danger è un giocoso documentario di propaganda. E Jim Jarmusch è l’orgoglioso portavoce nonché il ministro della dottrina: “Gli Stooges sono la più grande rock and roll band di tutti i tempi”. Il tempo sembra però minacciarne il ricordo: se si esclude la reunion del nuovo millennio, a testimoniare degli storici tre album e di quella manciata d’anni ci sono molte foto ma poco girato. Dunque l’impresa di ricostruzione è ardua, anche perché il materiale è di difficile reperibilità (pare che Iggy sia dovuto andare a caccia di reperti persino dai suoi vecchi spacciatori).
“L’esorcista” di Friedkin come epopea del sound design
Almeno su un punto L’esorcista sembra mettere tutti d’accordo: lo straordinario uso del sonoro. C’è tutta un’aneddotica sulla realizzazione di certi effetti, come lo scricchiolio delle ossa del collo di Regan, ottenuto stritolando un portafoglio di cuoio pieno di carte di credito, o lo scalpiccio in soffitta, creato sovrapponendo graffi di unghie, una sega a nastro e il rumore di porcellini d’India in corsa su una tavola coperta di carta vetrata. Leggendario, poi, è il training di Mercedes McCambridge, che per trovare un timbro di voce da posseduta si era fatta legare a una sedia, aveva ripreso a bere e a fumare e ingoiò mele acerbe e uova crude in quantità.
“Il principe ereditario della repubblica” di Ioganson al Cinema Ritrovato 2018
“Una specie di strana, enorme dissolvenza incrociata: fra il muto che si va spegnendo lentamente e il sonoro che emerge”. La raffinata metafora di Giovanni Buttafava si riferisce a un periodo di transizione che dura almeno un lustro, grosso modo dall’inizio degli anni Trenta. Nell’Unione Sovietica di quegli anni, solo alcuni cinema dispongono dell’attrezzatura necessaria alla proiezione di film sonori, così continuano ad essere prodotti film in entrambe le modalità; in più si proiettano anche film muti sonorizzati e film sonori, per così dire, “ammutoliti”. Se, come ricorda Peter Bagrov, la registrazione del sonoro, sempre difficoltosa, comporta un irrigidimento nella recitazione e costringe gli attori a scandire le parole in modo macchinoso, al contrario, i film muti di quegli anni mostrano una straordinaria naturalezza e fluidità nella recitazione, proprio come accade in Il principe ereditario della repubblica. È però d’obbligo aggiungere che in questa deliziosa pellicola, dimenticata per anni, a risultare determinante è l’efficace direzione di Ėduard Ioganson, regista molto amato dagli attori per la sua abitudine di strutturare le scene in anticipo, provando prima delle riprese proprio come si fa in teatro.
“Marionette” di Jakov Protazanov al Cinema Ritrovato 2018
Uomo di grande mestiere, già nella Russia prerivoluzionaria raggiunge un posto di prim’ordine tra i registi d’intrattenimento. È sensibile agli umori del pubblico e capace di ottenere grandi successi al botteghino, come con La dama di picche o Padre Sergio. Nel tempo si rivela una figura preziosissima per la nascente industria cinematografica; aspetto, questo, che certa critica non gli ha mai perdonato: anziché riconoscere l’estrema padronanza del materiale espressivo e, come nel caso di Marionette o Aelita, la sua capacità di sperimentare con i generi, c’è chi, in riferimento al periodo sovietico, ne ha unicamente additato il disimpegno e ha liquidato buona parte della sua opera bollandola come cinema commerciale, con l’aggravante, nel caso del regista in questione, di uno sguardo vergognosamente rivolto verso ovest.
“Tenente Kiže” di Aleksandr Fajncimmer al Cinema Ritrovato 2018
Tra i teorici del cinema russo della seconda metà degli anni ’20 c’è una certa diffidenza nei confronti del sonoro, specie per i film recitati. A dire la verità c’è anche una certa diffidenza verso i film recitati in genere, ma questa è un’altra storia. Fatto sta che ancora nel 1927, Juryj Tynjanov, sceneggiatore del Tenente Kiže, sostiene, in Le basi del cinema, che lo specifico filmico sia da ricercarsi nella ‘povertà’ del mezzo, dovuta all’assenza della terza dimensione, del colore e del sonoro. Date queste premesse, la specificità del cinema può emergere solo attraverso l’elaborazione stilistica, nel momento in cui l’immagine, rinunciando alla riproduzione del reale, trasforma la sua povertà in forza costruttiva. Perciò, lo scopo di un film non è di restituire il mondo visibile in quanto tale, ma nelle sue correlazioni di senso, ossia di rivelare l’artificio in vista di un fine poetico.
“Fragole e sangue” per Cinema e Sessantotto (I)
The Strawberry Statement, ovvero ‘la dichiarazione delle fragole’: poco importano, al preside, le rivendicazioni studentesche, “Dirgli che abbiamo un’opinione nostra è come dirgli che ci piacciono le fragole”. Da qui il titolo del libro di James Simon Kunen e quello della pellicola di Stuart Hagmann, tradotti da noi, con licenza poetica, come Fragole e sangue. Con un tempismo perfetto rispetto all’attualità del periodo – basti pensare agli episodi della Kent State e della Jackson State University -, nei cinema statunitensi il 1970 è un anno di rivolte studentesche, dato che, oltre a Fragole e sangue, escono in sala L’impossibilità di essere normale di Richard Rush e R.P.M. di Stanley Kramer (ai quali si potrebbe aggiungere, sia per le sue scene iniziali che per il legame con la Metro Goldwyn Mayer, anche Zabriskie Point di Michelangelo Antonioni).
I suoni del Giappone interiore di Wes Anderson
Dopo Fantastic Mr. Fox, Moonrise Kingdom e Grand Budapest Hotel, Alexandre Desplat torna a collaborare con Wes Anderson per la colonna sonora dell’Isola dei cani. Torna, insomma, a lavorare sotto stretta sorveglianza, poiché, è risaputo, il regista esige un controllo maniacale dei dettagli e pretende che ogni aspetto del film rispecchi e promuova la sua cifra stilistica. Così, nell’Isola dei cani, l’ortogonalità tipica di Anderson, declinata in chiave nipponica, viene tradotta in musica con una rinuncia agli slanci melodici in favore di una verticalità ritmica. Sorprendentemente, il rischio di ripetitività, pur insito nel tematismo limitato, è scongiurato con un ipnotico sottofondo percussivo che gioca sul rinnovamento timbrico, anche grazie al ricorso a frequenti raddoppi, all’interno di un organico già di per sé esteso e stravagante.
“Un sogno chiamato Florida” e la casa di bambole troppo grande
L’utopia è ottenere, attraverso il ridimensionamento del sistema, la legittimazione di una statura economica inferiore. Sembra essere questa la traiettoria sottintesa di Un sogno chiamato Florida. Nel film di Sean Baker, il motel Magic Castle è una casa di bambole troppo grande, sproporzionata come il chiosco a forma di gelato gigante, tanto che la piccola Moonee, contesa tra inquadrature ad altezza bambino e grandangolari alienanti, è vittima, più che protagonista, di una distorta scenografia da live action in cui la dimensione degli edifici è talmente imponente da marginalizzarla. Ed ecco che Disneyworld appare il nocciolo di una fantasia di ridimensionamento, il luogo, immaginario e metaforico, in cui Moonee tenta di riconquistare una dimensione propria dell’infanzia, minacciata, oltretutto, da una madre kidult che rischia di usurparle il ruolo di principessa.
“Senza tetto né legge” e la libertà come negazione
Da sempre affascinata dal tema della flânerie, di cui il vagabondaggio rappresenta certo una forma radicale oltre che più ambigua, Agnès Varda costruisce un personaggio sfuggente, Mona, ispirato a ragazze realmente incontrate all’inizio degli anni Ottanta, che avevano scelto di vivere la propria libertà in solitudine, sulla strada. Ne deriva un film che, come scrive Serge Daney, è “lacerato tra la voglia di comprendere (tutto) e la voglia di far (solo) vedere”. Nonostante l’apparente spontaneità delle riprese, sostenuta dalla fotografia disadorna di Patrick Blossier, Senza tetto né legge è un film estremamente artefatto, in cui la padronanza stilistica si cela in un voluto distacco documentaristico e in uno sguardo a tratti addirittura impersonale, come quando la macchina da presa registra gli spostamenti di Mona, assecondandola in un percorso controcorrente, ossia da destra verso sinistra.
“Cléo” tra cinema d’autore e mercato
Il fenomeno Nouvelle Vague esplode in un periodo di profonda trasformazione dell’industria cinematografica francese, se non altro perché a partire dal 1959 il cinema non dipende più dal ministero dell’industria e del commercio, ma fa capo al ministero della cultura. Ed ecco che, grazie ad una maggiore sensibilità verso l’approccio artistico, iniziano a spuntare pellicole il cui andamento sul mercato è difficilmente prevedibile. Cléo dalle 5 alle 7 sembra sottintendere il conflitto tra un cinema che guarda al mercato e un cinema che guarda all’autore: attraverso la vicenda della protagonista, Agnès Varda tesse un’argomentazione a favore del secondo, affermando la propria autorialità fatta di cinécriture e di fusione tra film di finzione e documentario, o meglio, auto-documentario.
“K.S.E. – Komsomol” e l’inganno del mezzo-cinema
Guardando il film di Esfir’ Šub, torna alla mente una celebre frase di Lenin, presto diventata slogan e ripresa dallo stesso Stalin: “Il comunismo è il potere sovietico più l’elettrificazione di tutto il paese”. Nella frase, così come nel film, l’elettrificazione è celebrata come l’innesco dell’avanzamento tecnologico e diventa una sineddoche per la spinta al progresso in genere. Esfir’ Šub sceglie perciò un argomento-chiave per cogliere il clima da “cinque in quattro”, quello del primo piano quinquennale. Tutto è energia e movimento: la pellicola scorre trascinando donne alla catena di montaggio, uomini e lampadine danzanti, scrosci di applausi e d’acqua di fiume.