“I Disperati di Sandór” e i rapporti di forza della Storia

Il cinema politico di Miklós Jancsó ha il potere di ristabilire i rapporti di forza occultati dalla Storia, convertendo episodi anche poco conosciuti della vicenda nazionale ungherese in arcate narrative di assoluto rigore visivo. Alla ricostruzione esplicativa dei fatti subentra una lucida esegesi delle invarianti e delle trappole dei processi contro-rivoluzionari, e in generale della violenza fisica e ancor più psicologica indispensabile agli ordinamenti sociali dell’età moderna.

“Quo Vadis?” cento anni dopo

Dopo la visione rimangono impresse le scene dei grandi banchetti ma anche quelle delle persecuzioni dei cristiani nell’arena, tra persone sbranate dai leoni, corse delle bighe con persone legate e trascinate a terra senza dimenticare il celebre combattimento a mani nude tra Ursus e un toro. Non manca una componente erotica piuttosto marcata usata per dare un ulteriore contraltare drammatico alla depravazione dei romani sotto Nerone e alla rettitudine dei cristiani.

“Tropici” di Gianni Amico tra finzione e documentario

È il 1962 quando Gianni Amico si reca per la prima volta in Brasile, sulle tracce di due sue grandi passioni: il Cinema Nôvo e la musica latinoamericana. Ed è nel 1968 che esce, dopo alcuni corti e mediometraggi, il suo primo lungometraggio di finzione, Tropici. Attento alla lezione rosselliniana, Amico porta sullo schermo con intento didattico e politico quello che prima non pareva degno di essere raccontato e posto all’attenzione del pubblico occidentale. E lo fa con pudore, con quel tanto di finzione necessaria a mettere in scena una storia minima esemplare.

“Caino!” Heimatfilm realista

Sulle montagne del Tirolo il giulivo Franz ha una brutta dipendenza: la caccia di frodo. La sua mira è impeccabile, molto meglio di quella del guardiacaccia che lo odia profondamente sia per il suo vizio, sia perché si contendono l’amore e la mano di Sanna (Maria Stolz), la figlia del tintore. Caino! di Harald Reinl è di un’importanza storica notevole perché è il primo adattamento di un testo di Adalbert Stifter, uno dei massimi scrittori in lingua tedesca del Diciannovesimo secolo. 

“Fase IV: distruzione Terra” e la fantascienza non-umana

In 2001: Odissea nello spazio l’elemento umano decade in favore del non-umano, inteso nelle due accezioni difficilmente distinguibili dell’animale (prima) e della macchina (poi). Fase IV è un film d’autore (da dentro e attraverso il genere) che prende sul serio la sfida kubrickiana di un cinema in grado di fare a meno dell’umano, di cui si investigano i prodromi (dawn of man) e gli esiti tecnologici futuribili, ma si bypassa totalmente qualunque fase umanista intermedia.

“E Johnny prese il fucile” con la guerra chiusa nella testa

Dalton Trumbo scrive il suo romanzo E Johnny prese il fucile nel 1939 ispirandosi alla storia vera di un soldato americano durante la prima guerra mondiale, che nella finzione diventa Joe. Pochi anni prima Louis-Ferdinand Céline scrive il romanzo di ispirazione autobiografica Guerra, ambientato durante lo stesso conflitto che ha per protagonista il soldato francese Ferdinand. Joe e Ferdinand sono giovanissimi, arruolati nella stessa guerra ma su fronti opposti. Entrambi feriti finiscono all’ospedale, con la guerra chiusa per sempre nella testa.

“The Wind” che scava le coscienze

Ultimo film muto americano prodotto dalla MGM prima del ritorno in terra svedese, The Wind risulta essere all’epoca un film tutt’altro che facile da girare. Si può solo lontanamente immaginare come le forti e roventi raffiche di vento (artificiale, in quanto create dai motori di aeroplani portati sul set), nonché le temperature estreme del deserto del Mojave abbiano influito sulla resistenza fisica (nonché psicologica) degli attori durante la scena della traversata a cavallo nella desolazione più totale.

“The Devil in Miss Jones” contro la repressione sessuale

L’occulto fa in Miss Jones da contraltare positivo alla repressione sessuale, più o meno esplicita, che accumuna gran parte dei protagonisti femminili del cinema statunitense del passato. Il titolo stesso del film (The Devil in Miss Jones) fa il verso a The Devil and Miss Jones (in Italia Il diavolo si converte, 1941), sfottendo una rappresentazione antiquata di donna fiera della sua frigidità, più devota al dovere e alla prole che a sé stessa.

“Il bandito della casbah” onirico oltre il realismo

È impossibile non rimanere affascinati da questa figura di malvivente fragile che sogna di ritornare in patria insieme alla donna che ama e questa è un’altra peculiarità non banale del film, anche se largamente condivisa con altri film del “realismo poetico” come Il porto delle nebbie (1938) e Alba tragica (1939), sempre con Gabin: il suo spingerci a empatizzare con un personaggio, che, più che un criminale, sembra un senza terra, e più che dalla polizia, appare essere braccato da un destino incombente.

“Chijo” malinconicamente incontaminato

Chijo di Kozaburo Yoshimura è ambientato nel periodo Taisho (1912-1926), un’epoca in cui si sentono fortemente gli echi della Grande Rivoluzione Socialista russa, e quindi i moti di operai, contadini e soldati. Il vero protagonista di questo film è la fabbrica di ceramiche di Kanazawa (conosciuta anche come la “piccola Kyoto”) e la rivolta degli operai, donne e uomini, giovani e vecchi, che decidono di creare una sommossa contro i padroni per ottenere maggiori diritti: aumento del salario e più giorni di riposo.

“Golden Eighties” tra vetrina e vertigine

Golden Eighties esibisce con lucidità dialettica la vetrinizzazione del mondo moderno costringendo lo spettatore a fare i conti con il proprio sguardo ormai sempre più esposto e ossessionato da schermi di vario genere e con i propri automatismi emotivi in una società iper-industrializzata caratterizzata dalla riproduzione seriale pressoché illimitata anche delle emozioni.

“Die Frau, nach der man sich sehnt” e l’invenzione di Marlene

Si naviga del mare del melodramma, con i vizi e le virtu’ polarizzate in un triangolo micidiale in cui non ci saranno vincitori ma solo vinti; nell’interpretare la femme fatale Marlene Dietrich si spinge un gradino più in su della mera rappresentazione, la vita vissuta appare come un ruolo assegnato dal fato quale disegno drammatico e irrevocabile, al quale la protagonista non potrà sottrarsi, pagando con la vita.

“Bílý Ráj” puzzle con i pezzi al posto giusto

All’interno di Bílý Ráj troviamo dunque diversi personaggi interessanti: un regista, Karel Lamac, grande conoscitore del cinema internazionale, che cercherà negli anni successivi di sperimentare e giocare con i generi; un’attrice, Anny Ondráková, meglio nota al pubblico come Anny Ondra, che sarà poi protagonista in Ricatto (Blackmail) di Alfred Hitchcock (1929); un operatore, Otto Heller, che sarà uno dei più importanti della prima cinematografia ceca; uno sceneggiatore, Václav Wasserman che sarà autore di tante storie interessanti.

“I monelli” e i panni sporchi della Spagna franchista

L’esordio alla regia di Carlos Saura è un affresco della condizione dei giovani sottoproletari nelle degradate periferie urbane della Spagna franchista. I sei protagonisti, uniti da una forte solidarietà, attraverso furti e aggressioni, cercano di coronare il sogno di uno di loro di diventare torero. Pesantemente censurato e poi paradossalmente scelto dal regime per rappresentare la Spagna a Cannes, ritorna nella versione originale grazie a un complesso lavoro di restauro della Filmoteca Española.

Peckinpah e Dylan nel crepuscolo degli idoli

Il canto del cigno di un’epoca è affidato alla voce consumata dello storyteller di Duluth, Robert Allen Zimmerman, meglio noto come Bob Dylan. Tra evocazioni sonore tex-mex e minimali tocchi di chitarra che si intensificano, in un finale barocco, mischiandosi a tre vocalist, flauti, violoncelli e contrabbassi, il menestrello americano si fa voce e corpo di un Ovest al suo tramonto nello struggente Pat Garrett e Billy Kid di Sam Peckinpah.

“Jacques Demy, le Rose et le Noir” nel vortice en chanté

In Jacques Demy, le Rose et le Noir si agita un vortice poliforme che riesce a saldare l’esperienza biografica del regista alla dimensione onirica dei suoi film che, nel tripudio estetico, musicale e coloristico, nascondono il fatalismo dell’amour fou, gli ingranaggi inceppati dell’esistenza, l’indissolubile presenza di un manque che è espressione di pessimismo illuminato e dolci illusioni. 

L’Heimatfilm nella Repubblica Federale Tedesca

Nel 1949 escono due Heimatfilm per molti versi affini. Il primo è Die seltsame Geschichte des Brandner Kaspar di Josef von Báky, tratto da una storia molto nota in area bavarese, soprattutto grazie al racconto in dialetto di Franz von Kobell. In realtà quella di Brandner Kaspar è una storia nota in tutto il mondo, raccontata nel corso della storia in molti modi diversi, quella dell’incontro con la morte in persona. Il secondo film è Caino!, primo lungometraggio di Harald Reinl, che si era formato sui set lavorando come assistente di Leni Riefenstahl.

“Omicidio a luci rosse” e il mondo di cartapesta di Hollywood

Omicidio a luci rosse ha il potere di guadagnare fascino a ogni visione, come quando si ripercorre un proprio sogno trovando attraenti immagini o simboli che prima apparivano privi di significato.. È l’andatura spezzettata e caotica del sogno a definire la parabola narrativa di Jake, in viaggio attraverso l’immenso parco divertimenti hollywoodiano. Un mondo di cartapesta dove il confine tra reale e artificiale svanisce in una dissolvenza incrociata.

“La città si difende” e il noir all’italiana

Pur ricevendo il Premio per il miglior film italiano alla dodicesima edizione della Mostra del cinema di Venezia, La città si difende non fu generalmente apprezzato dalla critica italiana né nella cornice veneziana né all’uscita nelle sale. Queste valutazioni hanno contribuito al progressivo oblio a cui il film è stato consegnato, oscurando così anche quella rielaborazione di un immaginario noir attraverso modelli nazionali che il cinema italiano inizia a compiere fin dai primi anni Cinquanta .

“Chemi Bebia” tra avanguardia e politica

In un mix di commedia slapstick e surrealismo grottesco, Mikaberidze utilizza molte delle cifre stilistiche di ripresa e delle tecniche di montaggio messe a punto dall’avanguardia russa per sorprendere e disorientare il pubblico, dando forma a un film fortemente politico. Pur condannando l’inefficienza e elevando il proletariato operaio allo status di dio annientatore il film fu tacciato di eccessivo formalismo e di proporre un modello negativo del regime.

“La conversazione” dal passato al nostro futuro

Oggi La Conversazione ci appare un film capace di dialogare con molte dimensioni diverse. Ci parla del passato: la tecnologia analogica che iniziava a minare la libertà individuale; la realtà che non era come appariva; il richiamo allo scandalo Watergate del cui clima di smarrimento e sconcerto sicuramente la pellicola si nutre. Ci riporta al nostro presente: l’invadenza della tecnologia – ora non più analogica ma digitale – nella vita privata e quotidiana; il conseguente rischio di svuotamento e perdita di identità a cui siamo anestetizzati.