“Kinds of Kindness” speciale I – L’hula hoop d’autore

La libertà che Lanthimos si è giustamente conquistato viene investita in un interessante esercizio dove alcune delle modalità di rappresentazione del regista vengono scritte e riscritte provando delle varianti. Senza spostarsi dal suo naturale baricentro (siamo difatti a un ritorno al suo cinema “greco”), Lanthimos continua un percorso di sperimentazione teso tra familiarità e diversione. Fa l’hula hoop? Potrebbe essere una metafora calzante?

“Marcello mio” tutto sua figlia

C’è forse un equivoco alla base delle reazioni perplesse di molti addetti ai lavori e di parte del pubblico, perché Marcello mio non è un biopic su Mastroianni e nemmeno un semplice omaggio allo stesso, ma un’operazione molto più complessa e stratificata che gioca sul continuo ribaltamento tra messa in scena finzionale e vita privata, un corpo a corpo fiction/nonfiction che cerca di rielaborare il fantasma di Marcello e il suo mito attraverso la figura e i ricordi privati della figlia Chiara.

“Furiosa” speciale II – Il ruggito del grande cinema

In Furiosa è presente tutto Mad Max. È presente l’asprezza di una vita che distrugge affetti e valori per corrompere l’innocenza dei più puri e una reazione che acquista la forma di un rabbioso inseguimento. Ma ancora una volta è presente del grandissimo cinema, tumultuoso quanto l’assalto ad una blindocisterna, ma anche intenso quanto lo sguardo di due amanti che decidono di rischiare la vita per inseguire la libertà. C’è quindi veramente tanto di cui essere grati a George Miller, tanto per cui esaltarsi e gioire, ad occhi spalancati, in silenzio, nel buio di una sala.

“Furiosa” speciale I – Sovvertire le aspettative

Il film alterna all’azione momenti in cui il racconto procede con ritmo più cadenzato, in cui c’è più tempo per raccontare i personaggi, i rapporti tra di loro, con un approccio intimista che non sempre funziona del tutto. Ogni tanto questa alternanza di ritmo sembra penalizzare Furiosa, ne rende la narrazione più dispersiva e meno focalizzata. Ma è chiaro che si tratta di una precisa scelta autoriale che contribuisce a rendere questo film qualcosa di diverso dalla maggior parte dei blockbuster contemporanei.

“Parthenope” come opera-leviatano tra Napoli e il mondo

Se È stata la mano di Dio (2021) offriva allo spettatore una Napoli “vissuta da dentro”, filtrata dalla lente autobiografica alla maniera del suo nume Fellini, Parthenope torna sugli stessi temi con uno sguardo diverso, meno intimo ed estremamente più ambizioso. L’impressione è che stavolta Sorrentino miri (quasi melvillianamente) a scrivere il Grande romanzo della città, l’opera-leviatano in grado di esaurire un argomento contenendo in sé tutto il mondo, o almeno quel “mondo” che è Napoli.

“The Shrouds” e il lutto cronenberghiano

Morto un Cronenberg non se ne fa un altro. Ancora oggi The Shrouds mette sul tavolo un’idea inedita, forse una sola, ma di una potenza tale che parlare di cinema diventa riduttivo: qui si parla di frontiere della visione, della capacità di ragionare sulle fasi dell’esistenza umana in modo ferocemente originale. Non esiste da nessuna parte – di sicuro nel cinema “occidentale” – uno sguardo sul lutto, la morte, la sepoltura che somigli a quello di The Shrouds.

“I dannati” e la separazione dal mondo

Man mano che I dannati procede, il gruppo dei protagonisti si frammenta, i personaggi cambiano, le aspettative e le illusioni cedono, lungo un percorso ossimorico di dannazione e di ascetismo, di separazione dal mondo. Un lavoro unico che vuole riappropriarsi di un modo di conoscere e riscrivere la storia, grazie a un regista che non si lascia guidare solo dalle proprie intuizioni, bensì recepisce ed elabora le tensioni del mondo esterno, presente, passato e forse un po’ anche futuro.