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“Mani nude” all’ombra della colpa
Mani nude è devastante nel presentare la propria idea di una violenza biblica, e persino brillante nel rappresentarla a schermo dividendosi tra la tragica azione dei crudi combattimenti e l’altrettanto tragica sedentarietà di una vita fuori dal buio carcerario ma all’ombra delle proprie colpe. Due segmenti estremamente diversi esteticamente ma sostanzialmente uguali nel rappresentare la caduta dei personaggi.
“The Legend of Ochi” e il conflitto come retaggio culturale
Ecco un classico scontro generazionale tra l’adulto ignorante e la sensibile bambina che stabilisce un magico legame con la creatura, la quale è ovviamente più umana di quanto sembri. Sembra quasi che il regista sia più interessato a costruire un immaginario estetico mozzafiato piuttosto che raccontare una storia, laddove la bontà degli animali è data per assodata fin dall’inizio e non vi è alcun viaggio catartico né per lo spettatore né per la protagonista.
“Death of a Unicorn” come versione A24 di “Jurassic Park”
Death of a Unicorn sembrava un film molto più promettente su carta, mentre il risultato finale è quanto di più semplice e banale ci si potesse aspettare. L’arroganza umana spinge i ricchi e potenti a credersi padroni del mondo e dopo aver schiavizzato i propri simili, questi tentano di fare lo stesso con la natura, la quale, però, è una forza indomabile e finirà sempre per avere la meglio. Come dicevamo, semplice e banale.
“Nonostante” e il sarcastico dramma ospedaliero
Il taglio sarcastico con cui il regista affronta il concetto di perdita, che si tratti di una stanza o dell’assenza di un padre, e la paura di affrontare la realtà rifugiandosi in una dimensione ultraterrena, laddove basterebbe invece un salto per riportarci con i piedi per terra, risultano efficaci nel fornire al film uno stratagemma originale e interessante per affrontare argomenti che altrimenti rischierebbero di appesantire fin troppo una narrazione già drammatica di suo.
“U.S. Palmese” e la fierezza del cinema provinciale
Probabilmente qualche decennio fa anche questo sarebbe stato considerato un film popolare, ma il fascino verso operazioni del genere è ormai appannaggio di quei pochi superstiti che visitano le sale nelle rare occasioni in cui debuttano pellicole come U.S. Palmese. Ci sentiamo di dire che i Manetti fanno cinema provinciale, nell’accezione più onorevole che possa esserci. Sono fuori dal tempo, indifferenti dinanzi al suo scorrere e fieri di abbracciare questa dannata tradizione.
“La città proibita” speciale I – Il cinema fusion
L’attenzione al contesto e la descrizione di una Roma “fusion” sono poi gli elementi più interessanti de La città proibita, e costituiscono il punto di forza della pellicola. Il regista ha la capacità di raccontare la città più inflazionata e rappresentata del cinema italiano in maniera inaspettatamente interessante e questo gli va riconosciuto. Purtroppo però, il tutto risulta poco organico nel mescolarsi con le dinamiche tipiche del cinema d’arti marziali, andando a minare concettualmente il senso di unione, di fusione appunto, che è alla base del film.
“The Sweet East” e il delirio collettivo americano
Ci sono tutte le caratteristiche per incastrarsi nello stereotipo dell’indie americano: un po’ coming of age, un po’ road movie, girato quasi interamente con macchina a mano, insistenza su inquadrature strette e primi piani, la solita fotografia di Williams e i dialoghi nevrotici su politica, relazioni, arte e cultura. Tuttavia, al di là di ironiche generalizzazioni, The Sweet East sembra prendersi davvero poco sul serio proponendo una satira sulle varie facce dell’America viste dalla prospettiva di un’adolescente della Gen Z.
“Captain America: Brave New World” e il paradosso fumettistico
Captain America: Brave New World, il titolo sembra quasi una dichiarazione d’intenti e d’altro canto c’era già Deadpool l’anno scorso a sbeffeggiare la crisi nella Casa delle Idee. Peccato che nonostante il film risulti piacevole e decisamente più quadrato rispetto alle ultime uscite (fatta eccezione per Gunn e i suoi Guardiani), il mondo qui presentato ha poco di coraggioso e nulla di nuovo. Sembra una dichiarazione d’intenti proprio perché si è tanto parlato in questi anni di “superhero fatigue” e considerando che la concorrenza ha sempre faticato a imporre i propri supereroi si fa prima a dire “Marvel fatigue”.
“Babygirl” e la commedia travestita da thriller
Babygirl sembra quindi voler parodizzare le dinamiche classiche del rapporto capo-assistente, nel tentativo di sdoganare quelle che vengono percepite come “perversioni” sessuali, oggi non più materiale da thriller, ma elemento comico. La dura e robotica donna, incastrata nei suoi ruoli (madre modello/ moglie perfetta/ inscalfibile leader aziendale), impara il piacere della vulnerabilità da persone più giovani, che crede invece di dover proteggere.
“A Complete Unknown” e il rifiuto di dare spiegazioni
Non importa sapere chi sia davvero Bob Dylan, che cosa abbia fatto nella vita, o come sia diventato ciò che è (e guai a chiedergli da dove vengano le sue canzoni): il punto è proprio l’inafferrabilità. A maggior ragione, una volta raggiunto un certo status, una volta che il ragazzino diventa Dylan, il personaggio inizia a nascondersi. Indossa quel paio di occhiali quasi fossero il cappello di Clint Eastwood nella trilogia del dollaro
“Wolf Man” e il peso dell’eredità
Questa volta è proprio l’orrore a essere carente e pur riuscendo a raccontare una storia straziante, nelle sequenze prettamente horror sembra mancare l’ispirazione, ricorrendo ai soliti canonici jumpscare e le classiche fughe dell’ultimo minuto, troppo prevedibili per avere un reale impatto. Ciononostante, Whannell si dimostra ancora una volta originale nel rapportarsi ai classici e nel suo stravolgerli, in un film che fa del rapporto con l’eredità culturale lasciata dai padri la sua tematica centrale.
“Here” speciale III – Il rapporto con lo spazio e con il tempo
Il film sembra invitarci a spostarci da “qui”, uscire di casa, consapevoli che la nostra conoscenza non è che una traccia di quanto ci resta da scoprire. In relazione al cinema la sperimentazione potrebbe essere vista allora come un primo tentativo e se non possiamo ancora definirlo un passo avanti, Zemeckis sta certamente puntando il dito fuori dalla porta. In fondo, c’è un’unica direzione in cui stiamo andando.