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“Sciuscià” e la genesi del film

“Erano i giorni che sapete e ne avevo già visto abbastanza per sentirmi profondamente turbato, sconvolto; le donne che andavano in camionetta con i soldati, gli uomini e i ragazzini che si buttavano in terra per afferrare le sigarette o le caramelle. Agli adulti pensavo meno che ai bambini; e pensavo: ‘Adesso sì che i bambini ci guardano!’. Erano loro a darmi il senso, la misura della distruzione morale del paese: gli sciuscià” (Vittorio De Sica”). 

“Sciuscià” e la critica

Il ritorno in sala di Sciuscià, all’interno del progetto Cinema Ritrovato al Cinema, permette di guardare con occhi nuovi al capolavoro neorealista di Vittorio De Sica. Ci accompagnano nella riscoperta alcune fonti critiche (sia d’epoca sia della cinefilia moderna) decisamente suggestive. Come scriveva Dino Risi: “Sciuscià è un film italiano, italiano come la nostra miseria, come il nostro sole a lutto, come il nostro amore ferito”.

“Strade perdute” tra musiche e suoni

Breve antologia di riflessioni e dichiarazioni intorno al maestoso e conturbante lavoro su suoni e musiche nel film di Lynch: “David mi ha descritto l’immagine del mondo dove la storia è ambientata, un mondo di doppia identità, di misteri, di labirinti mentali e mi ha descritto il tipo di musica che voleva: molto astratta, oscura, capace di insinuarsi in profondità, sotto i dialoghi, di muoversi lentamente come qualcosa di bellissimo ma cupo”.

“Strade perdute” e la critica

Il ritorno in sala di Strade perdute permette un breve ricognizione su quello che uscì all’epoca, da parte di una critica al tempo stesso spiazzata e ammirata dallo sperimentalismo di Lynch. Come scrisse Thierry Jousse, del resto, “il principio di narrazione schizofrenica svolge un ruolo decisivo nella destabilizzazione suscitata dalla pellicola, poiché impedisce chiaramente qualsiasi principio di identificazione, sbarrando ogni accesso privilegiato al senso”.

Le classifiche 2022 dei redattori

Anche quest’anno – dopo aver pubblicato la classifica generale – offriamo i 5 film preferiti (in ordine alfabetico) dei nostri redattori. Si conferma la ricchezza dell’offerta cinematografica di quest’anno. In ogni caso, le preferenze espresse dai redattori di Cinefilia Ritrovata possono fungere anche da guida appassionata per una stagione cinematografica tutta da riscoprire anche nei prossimi tempi. 

I migliori film del 2022

Ecco l’attesa graduatoria dei nostri appassionati collaboratori. Trionfa la lettera d’amore al cinema di Steven Spielberg, tallonato da un altro grande autore americano, Paul Thomas Anderson, e dalla trionfale Palma d’Oro del cinema europeo. Nuovi autori (Peele, Diop), maestri del cinema (Bellocchio, Cameron, Cronenberg) e registi a metà del cammin di loro vita (Larraín) compongono il quadro di un’annata straordinariamente ricca e diversificata. 

Gene Kelly e Stanley Donen autori alla pari

“Stavo io dietro la macchina da presa e Gene Kelly davanti? Non c’era una divisione prestabilita del lavoro di regia, non c’erano regole fisse su ciò che faceva uno e ciò che facevo l’altro. Abbiamo trovato soluzioni, pianificato e lottato. All’epoca lui era molto più importante di me. Era una star, aveva un grande potere. Bisognava sapere come tenergli testa. Bisognava trovare il modo di offrire qualcosa per compiacere l’altro. Anche lui doveva compiacermi. I.A.L. Diamond, che ha lavorato a lungo con Billy Wilder, diceva di sapere che stavano collaborando quando proponendo qualcosa a Wilder lui rispondeva: ‘Perché no?’. Questo è collaborare”. (Stanley Donen)

“Cantando sotto la pioggia” e la critica

Infornata di approfondimenti critici autorevoli sul capolavoro di Donen/Kelly. Per esempio il grande Claude Chabrol che scrive: “Sotto la pioggia, un uomo canta e balla. Con quest’acqua l’uomo inizia un grazioso balletto. Lo spettatore, suo complice, canta e balla con lui sotto lo sguardo sconcertato di un poliziotto. E quando l’uomo sullo schermo, con l’ombrello puntato verso il cielo, si arrampica su un lampione, il suo complice, nel buio della stanza, tende a imitarlo. Questo si spiega solo con la presenza di un artista la cui macchina da presa, agile e leggera come lui, sa farci sentire la soave purezza delle cose e una profonda emozione di felicità”. 

“Casco d’oro” e la ricezione. Storia di una legittimazione cinefila

È difficile credere che Casco d’oro, oggi considerato da tutti il capolavoro di Jacques Becker, sia stato largamente respinto alla sua uscita in Francia perché considerato una delusione rispetto ai precedenti film dell’autore. Sembra che a deludere la critica francese sia stato il fatto che Becker, fino ad allora considerato il cronista della società francese contemporanea, avesse realizzato un dramma in costume. Ma per Becker Casco d’oro non era un film in costume in senso tradizionale. La sua ricostruzione della Parigi fin-de-siècle è minuziosamente dettagliata, e all’interno di essa il cast si comporta come se fossero nel loro habitat naturale.
Philip Kemp, “Sight and Sound”, dicembre 2012

“Casco d’oro” e la critica

Nell’antologia critica del film restaurato, di ritorno nelle sale di prima visione, spiccano le parole di Lindsay Anderson: “Quando in Inghilterra scrissi la recensione di Casco d’oro, tentai di definire la scintilla che faceva splendere l’opera di Becker, e conclusi che in definitiva si trattava ‘di una simpatica fascinazione di fatti e di gesti’. Volevo così sottolineare la complicità che esiste tra Becker e ciò che si potrebbe definire ‘il superficiale’; non che sia un regista superficiale, ma per lui il superficiale non è mai fuori luogo. È affascinato dagli oggetti, dalle scenografie, e dal modo in cui rivelano i pensieri, le convinzioni e le emozioni degli uomini e delle donne che li utilizzano”.

Una visita al Bates Motel

“Con l’aiuto della televisione, l’omicidio andrebbe portato nelle case, perché il suo posto è lì. Alcuni dei nostri omicidi più deliziosi sono stati domestici: perpetrati con tenerezza in posti semplici e accoglienti come il tavolo della cucina o la vasca da bagno. Niente ripugna di più il mio senso del decoro di un teppista di strada che è in grado di assassinare chiunque, perfino persone che non gli sono nemmeno state presentate. Dopotutto, sono sicuro che sarete d’accordo con me, l’omicidio può essere molto più affascinante e piacevole, anche per la vittima, se l’ambiente è confortevole e le persone coinvolte sono dame e gentiluomini come voi qui presenti”. Parola di Alfred Hitchcock.

“Psycho” e la critica

Con la distribuzione in prima visione della versione restaurata di Psycho, altro tassello del mosaico storico cinematografico del progetto Cinema Ritrovato al Cinema, ci troviamo di fronte a uno dei film più analizzati di sempre. Vediamo una ricca antologia critica intorno al capolavoro di Alfred Hitchcock. Del resto, come scriveva Dave Kehr, “il capolavoro di Alfred Hitchock unisce una brutale manipolazione del principio di identificazione del pubblico con uno stile visivo incredibilmente denso e allusivo per creare il film più moralmente inquietante mai realizzato”.

“Videodrome” e la critica

Che cosa di disse, all’epoca, di Videodrome? L’antologia critica del capolavoro di David Cronenberg restaurato (in sala grazie a Cinema Ritrovato al Cinema) è decisamente istruttiva. Come scriveva Tim Lucas nel 1983: “Videodrome sembra essere l’unico film finora prodotto negli anni Ottanta ad avere un senso chiaro di quello che comporta la sua decade, l’unico che affondi i denti nella carne del suo tempo. È incentrato sul pubblico: il suo bisogno di evasione, la sua amara mancanza di soddisfazione, il suo flirtare nichilistico col dolore per provare che può ancora sentire qualcosa, l’estremo spiazzamento che tutto questo comporta”.

“Teorema” e il processo per oscenità

Il film Teorema fu presentato il 5 settembre 1968 in concorso alla Mostra del Cinema di Venezia. Nel corso del suo intervento durante la presentazione del film alla stampa, Pier Paolo Pasolini dichiarò che il film partecipava al concorso per volontà del produttore Franco Rossellini ma contro il proprio volere, perché era contrario ai premi e allo statuto della Mostra del Cinema. Invitò i critici ad abbandonare la sala ma i critici rimasero in sala. Pasolini rifiutò di partecipare alla conferenza-stampa nel Palazzo del cinema e invitò giornalisti e critici nel giardino di un albergo dove avrebbe parlato esclusivamente della situazione della Mostra del Cinema, della contestazione alla Mostra e non del film.

“Teorema” e l’errore borghese

Alla 79ª Mostra Internazionale del Cinema di Venezia, la sezione Venezia Classici ha presentato il restauro del film Teorema, realizzato dalla Cineteca di Bologna e Mondo TV Group, in collaborazione con Cinema Communications Services, presso il laboratorio L’Immagine Ritrovata.  Teorema è tornato alla Mostra di Venezia, dopo la prima alla tumultuosa edizione del 1968, occasione in cui Laura Betti venne premiata con la Coppa Volpi per la Miglior interpretazione femminile. Premiato in un primo momento dall’OCIC – Organisation Catholique Internationale du Cinéma (che, qualche mese dopo, sconfessò il riconoscimento), poi attaccato da «L’Osservatore Romano», processato (con iniziale condanna dell’autore e del produttore), infine assolto, Teorema rivive ora grazie al restauro e torna, come tutta l’opera di Pasolini, a interrogare le nostre coscienze contemporanee.

“Ludwig” e la tradizione del cinema totale

La storia di Ludwig e la letteratura critica che ne sono seguite necessitano di un riassunto. Ecco la formidabile lettura di Peter Von Bagh (“Dopo aver raccontato la transizione dal capitalismo al fascismo e la grande crisi europea che l’ha preceduta, Visconti scende in un ‘crepuscolo degli Dei’: questo è cinema totale, originalissimo e allo stesso tempo nobile e ispirato proseguimento di una grande tradizione”) seguita dalla ricostruzione della storia del film.

Ritorno a Peter Lorre. “M” e l’ombra del mito

Ci facciamo accompagnare da due studiosi internazionali alla riscoperta di Peter Lorre e di uno dei suoi film più celebri. Omaggiato dal Cinema Ritrovato 2022, Lorre può essere considerato – secondo Alexander Horwath – “un uomo perduto, una stella errante nella galassia delle icone del cinema: allontanandoci dalle sue false promesse per attirarci in un mondo di disagio, ci ha offerto una rappresentazione tra le più fedeli dell’uomo del Novecento. La sua personalità fuori e dentro lo schermo è il risultato frantumato di un percorso che ha attraversato il modernismo e i fascismi europei, la tossicodipendenza e l’esilio, la cultura del denaro e la fama: in essa si riflettono volti e maschere del suo tempo”.

“Lo chiamavano Trinità” e la genesi del film secondo Barboni e Girotti

Parola a Terence Hill: “Il merito di aver messo insieme me e Bud Spencer fu di Giuseppe Colizzi, con cui facemmo Dio perdona… io no!I quattro dell’Ave Maria e La collina degli stivali. Dopo questi film io e Bud stavamo cercando lavoro, avevamo già visto due o tre copioni che non ci erano piaciuti. Intanto Barboni andava in giro per Roma con una sceneggiatura intitolata Lo chiamavano Trinità. I produttori l’aprivano e dicevano: ‘Cos’è tutto questo dialogo? Non ci sono morti? Passo!’. Noi decidemmo subito di correre il rischio. Sì, perché era considerato da tutti un rischio fare un film così strano, con delle battute particolari.

Parla Joseph Losey

“Il film è stato piacevole da fare: tutti quanti si volevano bene. Quando fu finito, i produttori cominciarono ad avere delle preoccupazioni. Dicevano: ‘Sa, non è commerciale, non andrà bene’, e naturalmente il film è andato bene. E anzi per me fu l’inizio di una nuova carriera e di una nuova vita. Fu anche l’inizio di una carriera per Sarah Miles e per James Fox, la prima volta in cui Richard MacDonald ottenne un vero riconoscimento, e una svolta nella carriera di Dirk Bogarde, senza parlare del riconoscimento del direttore della fotografia, Douglas Slocombe.

“Il servo” di Joseph Losey e la critica

In occasione dell’uscita in prima visione del restauro di Il servo di Joseph Losey – per il progetto Cinema Ritrovato al cinema – offriamo una carrellata critica internazionale. A cominciare dal maestro Sadoul che scrisse: “Le influenze della drammaturgia brechtiana, che Losey tenta d’applicare allo schermo raggiungendo la “distanziazione” per vie diverse, vi si fondono col gusto particolare di Losey per le atmosfere decadenti, narrate criticamente, e per i sottili e tortuosi (talvolta morbosi, ma mai fini a se stessi) scavi psicologici”.