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“Freaks Out” tra disincanto e grandiosità

Cinema al grado massimo di accessibilità e al grado zero di snobismo, che ama il genere e cerca in ogni modo possibile di farlo amare a chiunque, Freaks Out è grezzo come Jeeg, come lui meravigliosamente inesatto e storto, come lui disposto a sporcarsi le mani e ad evitare le facili soluzioni, eppure la grandeur produttiva e la luminosità narrativa finiscono purtroppo per anestetizzarne le emergenze, ne mimetizzano il cuore e la natura, come se questa volta i supereroi parlassero in dialetto romano non perché sia credibile e giusto per dare finalmente una prassi tutta nostra al cinecomic, ma piuttosto perché risulta simpatico: non sembra più, insomma, una questione identitaria ma di puro divertimento.

Cinema funambolico. “Titane” e la poetica delle vertigini

Cinema funambolico, complicatissimo da pensare e da attuare, capace di cadere sempre in piedi dopo ogni sua singola acrobazia e preciso nella reiterazione di sé e del proprio spirito sovversivo, Titane è allo stesso tempo poetica dell’assurdo e matematica delle emozioni, esaltazione del corpo piegato e dissimulazione della dolcezza che lo muove e che lo abita: meraviglioso e sconvolgente, la Palma d’oro dell’ultimo Cannes è un film che si concede tutto negandosi i postumi dell’euforia, che spalanca vertigini prive di orizzonti e piene di lascito.

Paul, Arrakis e lo stardom. “Dune” e gli statuti di grandezza

Villeneuve sfrutta il potere stardom di Chalamet per ottenere lo stesso tipo di risvolto semiotico (non a caso la prima scena che lo riguarda lo coglie a torso nudo) e la sua leggerezza, schiacciata dalle responsabilità della predestinazione e continuamente messa in discussione dal titanismo del contesto, tra astronavi, bombardamenti e vermi giganti, rappresenta la ragione stessa della sua chiamata in causa. In definitiva, Paul è come Arrakis, il pianeta desertico che si contendono le diverse casate dell’Imperium: inospitale, senza difese, feudo di infinite dominazioni ma allo stesso tempo invincibile, futuro dell’universo, rifugio della resistenza che verrà.

“Mondocane” alla portata del genere contemporaneo

Un film molto serio con il genere, che mantiene un livello molto alto di coerenza rispetto a quello cui il post-apocalittico americano ci ha abituati perlomeno sul piano visuale: dai palazzoni abitati ormai soltanto dalle rampicanti alle ciminiere dell’acciaieria, dalla polvere delle strade che zufola nell’aria al sole stanco che stagna lungo la costa, dalle motociclette ai corpi sudati e sporchi dei personaggi. In un testo così giustamente saturo di visivo, così serio con la rappresentazione del degrado post-atomico e così preciso nei riferimenti narrativi, Celli riesce anche a scommettere sul non detto, su quelle intuizioni puramente estetiche che non hanno epilogo o sviluppi ma che si portano appresso un intero mondo di sottintesi.

“Un altro giro” e l’assurdità ammissibile

In questa storia di ammissione dell’inammissibile, in questo gioco strampalato in cui il tabù diventa regola e in cui la morale è sbagliatissima, Un altro giro ammette il riscatto a prescindere da tutto, compreso il mezzo usato, e concede a chiunque la fattibilità della rinascita. Per Vinterberg la vita non può stagnare sulle cose fino a che non deperisce, ma anzi deve essere libera di sprigionarsi a costo di accettare il pericolo, perché essa è un formicolio di impeti e fervori, un’emorragia di impulsi e sensazioni, in definitiva è un traboccare di flussi ed energie il cui fine è scolare sulla realtà, come fa il vino dalla bottiglia al calice.

“Minari” e il semplice germoglio del racconto

Non ha slabbri e non ha vertigine, simula compromessi che poi risolve in sintonie, non ha accensioni né contrasti forti oltre la superficie, eppure non sembra possa esistere un cinema più giusto, più corretto e più preciso per entrare in connessione con le urgenze del nostro tempo: Minari era il vero film da Oscar 2021, non perché destinato a vincerlo o perché pensato per poterlo fare, ma perché il più risolto come racconto. In una stagione cinematografica impegnata come non mai a mettere in crisi convinzioni e assiologie, il film di Lee Isaac Chung è qualcosa di meno stratificato e comunque più vicino al miglior cinema possibile, quello della semplicità estrema.

“Night in Paradise” e la formula della vendetta

La vendetta sviluppa drammaturgia e produce storie, induce pathos e assicura un sensuoso e perverso sentimento di appagamento. Per Night in Paradise la formula del revenge movie non entra nella logica della messa in discussione, è in sostanza un sottinteso del genere gangsteristico, dove la vendetta è regolamentata al sistema, istituzionalizzata come principio. In quest’ottica non viene contestata la ragionevolezza dell’azione vendicativa e nemmeno ne vengono polemizzati i metodi d’esecuzione, sulla falsariga di un modello illustre come può essere Violent Cop, ma se ne indagano le conseguenze senza che il suo corollario venga mai disconosciuto.

“Notizie dal mondo” tra scoperta e ritorno del western

Tra revivalismo e aggiornamento, tra nostalgia e sfruttamento, il western ha mantenuto il suo carattere di immortalità e il suo fascino inestinguibile pur essendo, in fin dei conti, drammaturgicamente bloccato. Notizie dal mondo è l’esempio perfetto di questa tendenza. Lo sguardo di Paul Greengrass resuscita quel mondo, ripesca quelle seduzioni e sintonizza quel plesso di segni sulle possibilità di riflessione poste in gioco dalla modernità. Che sia il riflesso del mondo post-pandemia, o l’immagine di un’America uscita a pezzi dall’era Trump, il film non riscrive la mitologia ma piuttosto ne proroga la struttura in modo che la sintomatologia di quel malessere sviluppi le stesse frustrazioni del nostro mondo.

“Elegia americana” e il patriottismo incongruente

Elegia americana, a dispetto del titolo che richiede un’identificazione collettiva e un allargamento di prospettiva, è più interessato alla sua copertura di superficie, sembra stato pensato per dire la sua più agli Oscar che non sulla crisi sociale e politica dell’America di oggi. Ad un cinema che vuole essere a modo suo patriottico di certo non si chiedono la crudeltà spietata di Un gelido inverno o la dissacrazione implacabile di Tre manifesti a Ebbing, Missouri, due fra i più feroci resoconti dell’ignoranza e della brutalità made in USA, ma nemmeno che il racconto del contesto diventi un momento sussidiario o che il riscatto del protagonista da insignificante solitudine a prodigio di Yale anestetizzi le sue possibilità di diventare prototipo.

“I predatori” e l’endoscopia del malumore

Ne I predatori tutto è regola e principio dello stesso gioco manipolatorio, qualsiasi dinamica sovvertita, qualsiasi imprevisto narrativo o colpo di scena è sintomo di farsa e misura di tragedia, nel segno di un cinema costruito sulle aderenze e sulle abiure, sulle promesse e sull’inganno. Pietro Castellitto, premiato per la sceneggiatura in Orizzonti all’ultima Mostra del cinema di Venezia, si accomoda su personaggi carichi di esasperazioni e slargature, come esige la caratterizzazione canonica del “tipo”, e poi li riempie di cortocircuiti e anomalie, così che le nostre aspettative nei loro confronti trovino a volte conferme e a volte smentite.

“La verità su La dolce vita” e il mistero della creazione cinematografica

Grazie ad un lungo e inedito carteggio del 1960 tra Federico Fellini e i suoi produttori Giuseppe Amato e Angelo Rizzoli, il documentario ricostruisce le vicissitudini produttive de La dolce vita e ne sistematizza la cronologia, dando così la misura di quando e quanto i personaggi in campo hanno dato il proprio contributo alla lavorazione di uno fra i più illustri capolavori del cinema italiano. Pedersoli ha avuto accesso ad una corrispondenza così appassionante e dettagliata che ogni lettera potrebbe essere tranquillamente una battuta di sceneggiatura (e nel film, in alcuni momenti, è proprio così), ogni telegramma un colpo di scena, ogni telefonata una nuova prospettiva di senso, come se la storia fosse già pronta per essere filmata e il materiale d’archivio facesse drammaturgia da sé.

“Il meglio deve ancora venire” e la tradizione del buddy movie

Tutto ciò che Il meglio deve ancora venire rappresenta in termini di discorso filmico e pratica testuale viene direttamente dalla negoziazione rigorosa col suo prototipo, o meglio ancora dalla consapevolezza di esserne la formula. Se Quasi amici ha avuto un impatto a prova di immaginario sull’industria culturale francese, avendo rielaborato a sua volta le connotazioni del buddy e del road movie, il modello che ha proposto non ha mai cessato di produrre surrogati. Due persone che si scoprono unite al di là delle incompatibilità caratteriali, che poi si respingono e riconciliano, non è soltanto il punto di partenza per il film della coppia Delaporte/La Patellière ma ne è il significato assoluto.