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“Racconto di due stagioni” nel gelo dell’utopia

Come suo solito, Ceylan trascina lo spettatore all’esperienza di una durata immergendolo in estenuanti disfide dialettiche e pittorici squarci paesaggistici, ma è solo attraverso questa pratica di attento ascolto e di osservazione contemplativa che qualcosa come una lezione può compiersi: così trascorsa la fredda stagione, camminando sulla secca erba falcidiata dal gelo Samet si renderà conto di aver sempre vagato nel deserto della sua anima.

Chiedi chi era Delphine Seyrig

Nella sua produzione video Seyrig giungerà alla cancellazione della sua immagine a favore della presentificazione in quanto voce. Sois belle et tais-toi! rappresenta la definitiva evasione dalla vetrina. Se in Golden Eighties l’approccio dialettico-materialista di fedeltà assoluta alla vita invetrinata lasciava intendere l’oscenità della melanconia femminile, qui il medesimo procedimento s’accorda alle singolari voci di attrici esasperate dalle condizioni di lavoro.

Case che crollano nel cinema siriano

Case che crollano, case infestate da zombie ronfanti. Nei primi due lungometraggi scritti da Ossama Mohammed (Stars in Broad Daylight, da lui diretto, e Al-Leil di Mohammad Malas), la casa, metafora della Siria, ha pareti fragili o mediocri padroni. Un dittico che può dirsi complementare sul centro vuoto del paterno a cui supplisce una ridicola deriva autoritaria, sulle storture di una società conservatrice e religiosa e sull’impotenza di trasformare lo stato delle cose da parte dei civili.

I corpi del cinema di Boris Barnet

Barnet rimane semplicemente fedele alla grazia che questi corpi sanno già da soli emanare. Che sia un anonimo viandante, un consumato contadino, un fulgente giullare o un solerte colosso, Barnet non vede differenze perché tutti quanti provengono da una stessa radice umana, da un medesimo impeto terreno, da un condiviso sguardo gentile verso il mondo e i suoi abitanti.

“Golden Eighties” tra vetrina e vertigine

Golden Eighties esibisce con lucidità dialettica la vetrinizzazione del mondo moderno costringendo lo spettatore a fare i conti con il proprio sguardo ormai sempre più esposto e ossessionato da schermi di vario genere e con i propri automatismi emotivi in una società iper-industrializzata caratterizzata dalla riproduzione seriale pressoché illimitata anche delle emozioni.

Il cinema di Harry Kümel nella notte dell’umano

Delphine Seyrig nelle vesti della draculea Élisabeth Báthory attraversa una notturna Marienbad in La vestale di Satana (1971). Il luciferino Cassavius di Orson Welles sul suo letto di morte invoca la luce in Malpertuis (1971). Il cinema vampiresco di Harry Kümel succhia il sangue dai maestri del meta-modernismo per dare nuova linfa a intramontabili divinità, a favole e racconti dell’orrore: erigere un monumento al desiderio di raccontare le eterne lotte tra la luce e il buio, tra l’amore e la morte.

“I delinquenti” alla conquista del tempo

L’arte della divagazione di Moreno sembra divergere sia dalla divagazione neorealista di un Miguel Gomes, così aperto alla meraviglia dell’imprevisto, sia dalla divagazione materialista dei suoi amici del Pampero Cine, sempre pronti alla rottura della quarta parete per ricondurre la divagazione all’interno del loro progetto didattico. Moreno non sa in realtà che farsene della campagna. È solamente interessato a disattivare il comando della produttività, a riscoprire un tempo improduttivo, che è quello proprio del cinema.

“May December” e la moralità dello zoom

Il senso non si produce quindi dall’enfatizzazione del dettaglio, ma dall’accostamento tra movimenti divergenti, come nei film rosselliniani girati con il Pancinor. Certo, in Haynes non c’è alcun progetto pedagogico, eppure è comune la valenza epistemologica affidata allo zoom in quanto strumento di investigazione dello spazio e focalizzazione dello sguardo per lo spettatore. La melodrammatica ricorrenza, sempre variata, dello zoom permette allo spettatore di imparare, solo grazie a espedienti formali, a connettere immagini apparentemente discordanti.

Dove l’eccesso è la norma – Speciale “Povere creature!”

Un giorno Dio creò l’uomo e fu il primo sguardo. Al suo meglio il cinema ci restituisce uno sguardo sul mondo come se fosse la prima volta che lo vediamo. In Povere Creature! l’identificazione con lo sguardo della “idiota” Bella Baxter permette a ogni nuova scena un’esperienza di questo tipo in una screwball post-umanista che si fa grande destrutturazione delle colonne portanti su cui si regge la convivenza umana: famiglia, denaro, matrimonio, identità, uomo, donna, Dio, umanità. Nulla può più rimanere stabile, tutto eccede e così si aprono nuove vie all’immaginazione.

“The Holdovers” a lezione di classico

Fin dai titoli di testa entriamo in un altro microcosmo, il cinema hollywoodiano anni ’70 di Ashby, Schlesinger, Schatzberg: impronta realista, colori desaturati, musica folk, suoni ambientali, lunghe dissolvenze, personaggi solitari, spigolosi, umani. Un cinema classico, i cui elementi sono facilmente identificabili. Ma non si tratta di mimare il classico, piuttosto di mettere in relazione questi elementi, farne un giusto uso.

 

“Il cielo brucia” nel terremoto della rappresentazione

In confronto al modello rohmeriano, lo sguardo spettatoriale rimane sempre leggermente laterale rispetto a quello del protagonista. Assiste al suo sonnambulismo ma con divertita ironia. Secondo Montaigne il compito di un artista non è descrivere l’essenza delle cose ma l’oscillazione tra le cose. È un passaggio in esergo a un saggio di Werner Hamacher sul terremoto della rappresentazione in von Kleist, saggio a un certo punto citato da Nadja all’editore di Leon. Anche lo spettatore prova questa oscillazione.

“The Killer” e la tensione fincheriana tra controllo e imprevedibilità

David Fincher ce lo dice da sempre: la tensione tra metodicità e improvvisazione si fa metafora della vita del set. È la grande contraddizione produttiva della messa in scena fincheriana: un regista ossessionato dal controllo su ogni componente audio-visiva dei suoi film che non può sopportare, e allo stesso tempo vede come inevitabile, l’emergere dell’imprevedibile, dovendo quindi immediatamente intervenire, tornare al proprio codice.

“Il libro delle soluzioni” e la fuga d’autore

Se vi è una lezione nel cinema di Gondry è quella di rimanere sempre scettici delle proprie convinzioni, anche della fedeltà assoluta nella memoria. Il dispositivo narrativo del film gli conferisce un piglio letterario, inedito nel cinema di Gondry, che rafforza la sensazione di un doppio piano di senso che continuamente si scontra e incontra nel film: il piano della mente del regista e il piano “spettatoriale” che ironizza e riporta sul piano della realtà le velleità di fuga del genio. 

“Anatomia di una caduta” e la verità umana

“I dettagli tecnici, le traiettorie… Quello che importa è la verità umana!” diceva l’avvocato difensore di Brigitte Bardot nel La verità (1960) di Clouzot. Un film a cui Anatomia di una caduta certamente guarda nel riproporre la verità umana di una donna accusata di aver ucciso l’amore della sua vita. Sandra Hüller interpreta una scrittrice tedesca di romanzi d’autofiction. Da qualche anno vive con marito e figlio in uno chalet sperduto sulle Alpi francesi. Parla a malapena francese, più fluentemente inglese, ma la sua lingua materna, come il suo desiderio, sembra smarrito.

“Kafka a Teheran” per dibattere l’autorità

Kafka a Teheran è unfilm a episodi in undici quadretti, nove dei quali raffiguranti situazioni quotidiane di Teheran e caratterizzati dalla stessa impostazione: macchina da presa fissa, un campo in cui un soggetto democratico chiede un certo tipo di riconoscimento o di diritto, un fuori campo autoritario la cui funzione è di negarglielo in nome di una legge superiore. A differire solo prologo ed epilogo: il primo una sinfonia urbana, sempre a macchina fissa; il secondo, finalmente, un contro campo sul volto scoperto di un potere agonizzante con la macchina da presa che si libera.

Il bilancio di Venezia 80

Mai come in questo caso bisogna iniziare con il vincitore, perché per coloro che l’hanno visto e amato il Leone d’Oro a Povere Creature! è qualcosa più di una semplice vittoria, è il compimento di un destino inevitabile. Ciò che stava accadendo alla prima visione del film era un’esperienza assolutamente unica per i più. Forse alcuni tra gli spettatori erano anche alla prima di The Square a Cannes, certamente nessuno di essi era a Cannes nel 1960 per la presentazione de L’avventura.

“Lubo” nel nome del figlio

Figli inascoltati, figli da ritrovare, figli da riconoscere, figli da redimere. Nell’affrontare la Seconda Guerra Mondiale Giorgio Diritti ci aveva già donato un’efficacissima immagine nel miracolo della parola da parte della bimba muta ne L’uomo che verrà. L’attesa per una paterna redenzione dei figli ritorna anche in Lubo e ancora una volta il regista bolognese aggira il thriller con una messa in scena rigorosa che prolunga i tempi per immergerci nella percezione del protagonista.

“La bête” nella giungla del digitale

Se Coma era una lettera d’amore alla figlia isolata nella pandemia, La bête è un melodramma che nella ritualizzazione scenica di una casa ritrova la possibilità di un’intrusione, di un incontro gratuito con l’altro. Ma lo ritrova soprattutto nell’incontro dello spettatore con il corpo di Léa Seydoux, nel patimento per il suo scontro corporeo con la rimediazione digitale, uno scontro che supera epoche per darsi ancora come seme del desiderio.

“Animali selvatici” dentro i nostri confini

La forma che Mungiu decide di adottare per raccontare le sue vicende è il thriller, che si fonda sul principio di una conoscenza solo auspicabilmente piena ma in fondo precaria, carente. La disseminazione di indizi tipica del thriller è prima di tutto una disseminazione di punti di vista. Difatti il film è alla perenne ricerca di un protagonista, di un punto di vista inascoltato. In questo modo lo spettatore può vagliare le divergenti prospettive e i conflitti di una piccola comunità chiusa della Transilvania senza dover assumere per forza una posizione determinata.

Il cinema di Elfi Mikesch, sogni al femminile

Una musica hawaiana, una donna che si lava i capelli, uno scontro tra anelito di fuga ed esperienza abitudinaria in cui s’insinua una voce femminile che con cadenza poetica verseggia d’un desiderio di reciprocità amorosa. La musica diventa una ballata, la fuga diventa d’amore, una donna si asciuga i capelli. Immagini e voci si alternano per qualche minuto, un montaggio di materiale informe che produce una sensazione d’insoddisfazione, rafforzando il desiderio di qualcosa di compiuto. Le donne che popolano il cinema di Elfi Mikesch sono delle sognatrici che vivono una realtà precaria.