Archivio
“A Strange Way of Life” e il desiderio del western
Almodóvar non vuole rifare il western classico, lo vuole reinventare. E lo fa senza eludere le caratteristiche di genere ma rivisitandole e aggiungendo al tutto una tensione ambigua, sotterranea e pronta a esplodere con violenza come accade in un altro western recente quale Il potere del cane di Jane Champion, a cui il regista ha confessato di aver guardato. Inoltre vanta una cornice di arredi, abiti e oggetti di scena elegantissimi, frutto della collaborazione con Yves Saint Laurent.
“Amanti senza domani” per sempre
Con Amanti senza domani (titolo italiano poco felice rispetto all’originale e più neutro One Way Passage) Tay Garnett, sceneggiatore e prolifico regista – suo Il postino suona sempre due volte con Lana Turner – firma nel 1932 un piccolo gioiello in bianco e nero di soli sessantotto minuti: una commedia romantica e sofisticata, che richiama certi toni di Lubitsch, ma anche drammatica, che tratta temi pesanti come macigni – la malattia, la prospettiva di una morte prematura, l’assenza di futuro – con incredibile eleganza, leggerezza e ironia.
Dannati da qui all’eternità
Tutti associamo Da qui all’eternità all’immagine di Deborah Kerr e Burt Lancaster avvinghiati sulla spiaggia e accarezzati dalle onde, in una delle scene d’amore più iconiche della storia del cinema. Ma nel famoso film di Fred Zinneman del 1953 la traccia amorosa è in realtà solo uno dei tanti aspetti della vicenda narrata, basata sulle storie di vita e di amicizia di alcuni soldati all’interno di una base militare alle Hawaii, poco prima che l’America prendesse parte al secondo conflitto mondiale.
“Il pianista” memorie di un regista
Dentro al Pianista troviamo memorie, tracce, squarci che guardano, più o meno consapevolmente, all’infanzia di Polanski e che vanno a fondersi con i temi più ossessivi della sua filmografia: il passato che ritorna, la persecuzione per colpe non commesse, la molteplice incarnazione del male, il ruolo salvifico dell’arte, la realtà che sfuma in toni irreali, gli aspetti ironici della vita che viaggiano a braccetto con quelli macabri.
Uno, nessuno, centomila Philip Marlowe
“Nessuna cicatrice visibile. Capelli castani, con qualche traccia di grigio. Occhi marroni. Un metro e ottanta per ottantacinque chili circa. Nome: Philip Marlowe. Professione: detective privato”. L’identikit – che in realtà ci dice assai poco di Marlowe e forse volutamente – è quello che Raymond Chandler tratteggia nel suo Il lungo addio, sesto romanzo, uscito nel 1953, con protagonista il famoso investigatore privato. Una descrizione vaga ma preziosa, per tutte le trasposizioni cinematografiche.
“Frankenstein Junior” tra ironia e cinefilia
“Alive! It’s alive! It’s alive” (Vivo! È vivo! È vivo!). Rivedere la versione restaurata di Frankenstein Junior di Mel Brooks del 1974 sul grande schermo convince sempre più – caso mai lo si fosse dimenticato – che questo film è sempre vivo, un po’ come il suo immortale protagonista. Dopo quasi 50 anni dalla sua prima uscita, stupisce non poco vedere come i meccanismi narrativi, le battute, i tempi, le musiche, la fotografia, gli attori, funzionino ancora alla perfezione.
“Argentina 1985” e la linearità della giustizia
Al centro del film il personaggio di Strassera, interpretato dell’intenso Ricardo Darín, uno degli attori più noti del cinema argentino contemporaneo (e protagonista, tra le tante pellicole, di Il segreto dei suoi occhi, premio Oscar 2010 come miglior film straniero). Mitre insegue una minuziosa ricostruzione storica che realizza attraverso una scenografia e una sceneggiatura molto accurate ma anche attraverso la ricerca della somiglianza fisica degli attori ai personaggi reali, quasi a voler catturare nel modo più fedele possibile oltre che lo spirito del tempo anche la sua immagine (in alcune sequenze sovrappone direttamente alcune fotografie del processo alle immagini del film).
“The Forgiven” e lo sguardo straniero
La novità di questo adattamento però risiede, per McDonagh, in quella nota di esotismo che è una delle cifre letterarie di Osborne (per la quale lo scrittore viene spesso paragonato a Graham Greene) e che consente di guardare alla cultura anglo-occidentale da un punto di vista leggermente sfalsato. In The Forgiven i personaggi wasp sono visti come cosiddetti farang (termine che in Thailandia, dove da anni vive Osborne, viene usato per indicare gli stranieri): in questo caso un gruppo di persone sicure di sé, dei propri principi e della propria cultura, ma delle quali la terra straniera mette in luce ombre e fragilità.
“Il gigante” e la pastorale americana di George Stevens
“La grandezza appartiene a un altro periodo” fa dire George Stevens a uno dei personaggi del suo Il gigante. Eppure, per definire questa pellicola, non possiamo usare che questo metro: un grande film, di un grande regista, con grandi attori. Più o meno tutti conosciamo Il gigante, per averlo visto – per lo più in televisione – per averlo studiato o per averne sentito parlare. Ecco, questa specie di familiarità potrebbe talvolta averci distratto dalla sua straordinaria attualità e dal suo vasto respiro di classico.
“Come le foglie al vento” e la magnifica ossessione della ricchezza infelice
L’intera pellicola è infatti attraversata dai due elementi che compaiono subito nel prologo: una sotterranea seppur evidente vena di erotismo e un senso opprimente di tragico destino. Sullo sfondo rimane inoltre il tema della ricchezza portatrice di infelicità, argomento molto caro a Sirk, che solo due anni prima, nel 1954, ne aveva fatto la materia principale di Magnifica ossessione. “C’era una volta un povero ragazzo ricco” fa dire il regista a Marylee mentre si prende gioco del fratello. Ma se il denaro rimane un indelebile peccato originale, è l’irrecuperabilità del paradiso perduto a importare.
“La fiera delle illusioni” più adattamento letterario che remake
Del Toro ha esplicitamente dichiarato di non aver voluto inserire nessuna voce narrante esterna, nessuna strada notturna percorsa da uomini in cappotto, nessuna veneziana socchiusa da cui filtra qualche lama di luce, ma di aver invece voluto mantenere inalterato quel chiaroscuro, quella maniera obliqua che il noir ha di leggere la realtà. “Ho voluto fare un film – ha dichiarato – che fosse ambientato nel passato ma che parlasse del presente”. Un presente che il regista continua a raccontare attraverso la lente deformata di fauni, mostri marini, fantasmi e geek-mangiabestie.
“Illusioni perdute” tra aspirazioni e profitto
A dispetto dell’impianto classico e agli omaggi al grande cinema del Novecento, questo film risuona incredibilmente attuale e contemporaneo. A nulla vale un lungo rosario di oggetti antichi che saturano la scena: la pesantezza dei torchi tipografici, la leggerezza delle penne che si posano su fogli di carta volanti, la vischiosa materialità dell’inchiostro che sporca visi e coscienze. Forse perché il motore che muove tutti questi oggetti ormai perduti è una realtà che conosciamo bene e di cui abbiamo esperienza: l’irruzione del mercato e della legge del profitto nel mondo dell’informazione e dell’editoria.
“Madres paralelas” e i solchi immateriali della vita
L’urgenza filmica non è né quella storica e sociale, che pure attraversa in modo carsico la pellicola, né quella melodrammatica, supportata dalla trama e dalla intensa partitura musicale di Alberto Iglesias, e nemmeno quella trasgressiva, barocca e pop del primo Almodóvar, di cui troviamo qualche traccia sparsa. Da Julieta in poi il tono almodovariano si è fatto sempre più intimo e introspettivo e anche in questo film pare che l’interesse maggiore non sia rivolto tanto alle componenti melò, sociali, di genere o storiche, quanto a quello che Dolore, Gloria e Storia marchiano a fuoco sulle nostre vite, lasciando solchi immateriali ma profondi, come in una sorta di DNA non scritto.
“Io e Mr Wilder” tra cinefilia e ammirazione
L’espediente narrativo di Calista come testimone del set cinematografico del penultimo film di Wilder consente a Coe di far immergere il lettore in questo testo non fictional, in cui i ricordi della donna si mescolano ad eventi reali della vita del grande regista e si intrecciano ai temi di fondo del suo Fedora: il passare del tempo e la difficoltà ad accettarlo. Dietro quell’Io volutamente ambiguo del titolo intravediamo poi – neanche troppo in filigrana – l’autore, cioè Jonathan Coe, con cui la protagonista condivide più o meno la stessa età, l’amore per il cinema, figli ventenni, un colpo di fulmine in giovane età per Billy Wilder e una grande ammirazione per il suo penultimo film: Fedora.
La preghiera laica di “Corpus Christi”
Un cinema etico quindi quello di Komasa, e di conseguenza anche morale, sociale e politico. Un cinema che in Corpus Christi parla di una piccola comunità di paese ma anche di comunità in senso lato, facendoci pensare alla realtà geografica europea di cui ci sentiamo parte – per condivisione di valori, storia e cultura – ma anche a quella più globale del post pandemia. Un cinema che affronta temi come la solitudine, la marginalità, la paura, la rabbia, la voglia di vendetta e di contro il bisogno di condividere, di essere insieme, compresi, perdonati e amati. Tutti temi che da sempre ci interrogano nel profondo, che ci riguardano sia collettivamente che individualmente.
“The Chaser” e la vertigine della caduta
Sulla scia dell’apprezzamento di pubblico e critica che la vivace filmografia sudcoreana riscuote da diversi anni, facendo parlare di una sorta di nouvelle vague d’Oriente, è recentemente disponibile in Italia l’intera opera del regista Na Hong-jin: The Chaser (2008), The Yellow Sea (2010) e Goksung (2016). Come aveva già fatto Bong Joon-ho nel 2003 in Memorie di un Assassino (Memories of Murder), anche Na Hong-jin in The Chaser prende spunto da una storia vera per dar vita al suo primo lungometraggio: un riuscitissimo debutto, premiato poi come miglior regia sia ai Grand Bell Awards che ai Korean Film Awards e accolto con favore al Festival di Cannes 2008.
“Il braccio violento della legge” e l’orrore dentro di noi
Friedkin parte da un fatto realmente accaduto e inizia a raccontarlo attraverso una narrazione realistica, fatta di routine lavorative, tensioni fra colleghi, lunghi appostamenti che sembrano condurre a nulla. La New York di questa quotidianità è una protagonista livida e violenta, ripresa soprattutto nella sua vita di strada, dove anonime vetrine fanno da collegamento fra bar frequentati da sbandati e alberghi per malviventi di buon rango. Un teatro urbano in cui si muovono i due poliziotti, assuefatti ai loro comportamenti aggressivi, come se la violenza fosse l’unico modo di sopravvivere alla criminalità in cui sono immersi. Friedkin incrocia vizi e virtù in uno sfacciato chiasmo di etichette sociali, per mostraci non solo la loro inconsistenza ma anche la loro pericolosità.
“Mank” tra scrittura e tradimento
La stesura del famoso copione diventa un’occasione per procedere a ritroso nel tempo nella vita dello sceneggiatore, alla ricerca dei motivi che portarono Mankiewicz a scrivere un film sul magnate americano William Randolph Hearst. Ma l’intento di Fincher è tutt’altro che biografico. “Come dice lo scrittore – ricorda Houseman allo sceneggiatore durante una delle tante visite per controllare l’avanzamento dei lavori – racconta la storia che conosci”. “Io – risponde Mankiewicz – non conosco quello scrittore”. Eppure il regista sembra volerci avvertire fin dall’inizio come – sia nella storia raccontata da Mankiewicz sia in quella che lo stesso regista sta raccontando – i confini tra realtà e finzione possano a tratti sfumare l’uno nell’altro.
“Gli spostati” e l’America al crepuscolo
Tutto è indomito ne Gli spostati, tutto è fuori posto, come d’altra parte suggerisce il titolo originale, The Misfits, che allude proprio all’incapacità di adattamento ad un contesto, che in questo caso è sia quello sociale – l’America che sta perdendo la sua innocenza e si affacciava ad una nuova epoca – che iconografico – siamo al crepuscolo del mondo dei cowboy – che relazionale – la crisi del modello famigliare tradizionale è ormai esplosa. Tutto sfugge nel film, a cominciare dai titoli di apertura la cui grafica gioca su tessere di puzzle che non riescono a comporre un disegno d’insieme, passando per i protagonisti in perenne fuga da passato, presente e futuro, per arrivare alla stella della scena finale, da inseguire nella notte, forse senza sosta, per trovare un posto, una casa, un riparo dal dolore della vita.
“La traversata di Parigi” al Cinema Ritrovato 2020
Se – come ha sottolineato Nicolas Seydoux, presidente della Gaumont, durante la presentazione del film – la vera star del film è la Parigi sotto occupazione, bisogna però concedere che Gabin, Bourvil e Louis de Funès – nella esilarante parte di un nervoso ed esasperato droghiere – non brillano meno della stella principale. Su tutti svetta Jean Gabin, qui nel ruolo di un famoso e benestante pittore che decide, per capriccio o per noia, di scendere in strada. Forse per vedere da vicino cosa si nasconde dietro la facciata di quegli scorci parigini che lui stesso dipinge e vende a caro prezzo. Forse solo per osservare, con sguardo da divertito entomologo, le vite degli altri.