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“Atto di violenza” sulle cicatrici della guerra
Zinnemann parte da un pretesto in stile revenge movie – Frank si è macchiato di tradimento nei confronti dei suoi compagni e ora Joe li vuole vendicare uccidendolo – per costruire una storia di lenta ma serrata discesa negli inferi del senso di colpa. I passi strascicati della zoppia di Joe risuonano per tutto il film come il ticchettio di una bomba a orologeria, scandendo il tempo che rimane a Frank prima della deflagrazione finale: la resa dei conti col passato che lo insegue.
“E Johnny prese il fucile” con la guerra chiusa nella testa
Dalton Trumbo scrive il suo romanzo E Johnny prese il fucile nel 1939 ispirandosi alla storia vera di un soldato americano durante la prima guerra mondiale, che nella finzione diventa Joe. Pochi anni prima Louis-Ferdinand Céline scrive il romanzo di ispirazione autobiografica Guerra, ambientato durante lo stesso conflitto che ha per protagonista il soldato francese Ferdinand. Joe e Ferdinand sono giovanissimi, arruolati nella stessa guerra ma su fronti opposti. Entrambi feriti finiscono all’ospedale, con la guerra chiusa per sempre nella testa.
“La conversazione” dal passato al nostro futuro
Oggi La Conversazione ci appare un film capace di dialogare con molte dimensioni diverse. Ci parla del passato: la tecnologia analogica che iniziava a minare la libertà individuale; la realtà che non era come appariva; il richiamo allo scandalo Watergate del cui clima di smarrimento e sconcerto sicuramente la pellicola si nutre. Ci riporta al nostro presente: l’invadenza della tecnologia – ora non più analogica ma digitale – nella vita privata e quotidiana; il conseguente rischio di svuotamento e perdita di identità a cui siamo anestetizzati.
“Intrigo internazionale” in equilibrio perfetto e immortale
Nonostante l’elenco chiaramente riduttivo, per quanto ci si sforzi di enumerare gli ingredienti esatti è difficile riuscire a individuare l’esatta alchimia grazie alla quale Hitchcock ha dato vita a uno dei suoi capolavori senza tempo. Ancor oggi Intrigo internazionale gode di un intatto stato di grazia, di un equilibrio perfetto fra spionaggio, commedia sofisticata e sentimentale, fra suspense e ironia, fra leggerezza e riflessione esistenziale e sociale.
“Scarface” ossessivo, melodrammatico e seducente
“The world is yours”, leggiamo sul mappamondo dorato che si trova nell’atrio della lussuosa villa di Tony. Ma se durante la sua ascesa quel yours si poteva leggere al singolare, preannunciando l’avverarsi del sogno americano, nella caduta a chi si riferisce? Di chi è il mondo? Se alla fine nel film di Hawks il mondo non era più solo del suo villain ma anche dei poliziotti che lo giustiziavano e della società che si doveva fare carico del problema criminalità, nel remake di De Palma pare non esserci alcuna forma di speranza, giustizia o redenzione.
“La zona d’interesse” speciale III – L’attualità di Auschwitz
Glazer parte dal libro di Amis per darne una sua rilettura personalissima mantenendosi sì fedele ai temi di fondo, ma scarnificandoli, distaccandosi da vicende e protagonisti per concentrarsi da un lato sull’indicibilità e quindi anche sulla non rappresentabilità per immagini dell’orrore della Shoah, e dall’altro sulla figura di Rudolf Höss, che perde la connotazione grottesca e ridicola del romanzo per dar vita sullo schermo a “uno dei massimi criminali mai esistiti”, come lo ha definito Primo Levi e come emerge dall’autobiografia dello stesso Höss.
“Un colpo di fortuna” che non possiamo controllare
Allen questa volta al posto di Dostoevskij legge – e rilegge – Simenon, le cui atmosfere ritroviamo anche nel finale del film. Nel suo collaudato schema, che propone temi e dilemmi etici attraverso un racconto leggero, Woody aggiunge una riflessione: la fortuna non solo non la possiamo controllare ma la cerchiamo anche nel posto sbagliato. A volte il biglietto vincente della lotteria non si trova in un negozio ma dentro un bosco.
“Asteroid City” speciale I – Il filo rosso inafferrabile
Nonostante la loro molteplicità e sfaccettatura tutti i personaggi di Asteroid City hanno però un filo rosso che li accomuna: inseguono qualcosa di inafferrabile (sogni, speranze, vie d’uscita), hanno debolezze da vincere (paure, disillusioni, dolori), si trovano davanti a cose incredibili a cui sono costretti a credere (che sia la morte o un alieno che scende sulla terra). Questo continuo inseguire la vita senza riuscire ad afferrarla mai ci ricorda un po’ Willy il Coyote, che non appare ma in fondo abita un po’ questi personaggi, col suo spirito donchisciottesco stupito, ostinato e sognatore.
“A Strange Way of Life” e il desiderio del western
Almodóvar non vuole rifare il western classico, lo vuole reinventare. E lo fa senza eludere le caratteristiche di genere ma rivisitandole e aggiungendo al tutto una tensione ambigua, sotterranea e pronta a esplodere con violenza come accade in un altro western recente quale Il potere del cane di Jane Champion, a cui il regista ha confessato di aver guardato. Inoltre vanta una cornice di arredi, abiti e oggetti di scena elegantissimi, frutto della collaborazione con Yves Saint Laurent.
“Amanti senza domani” per sempre
Con Amanti senza domani (titolo italiano poco felice rispetto all’originale e più neutro One Way Passage) Tay Garnett, sceneggiatore e prolifico regista – suo Il postino suona sempre due volte con Lana Turner – firma nel 1932 un piccolo gioiello in bianco e nero di soli sessantotto minuti: una commedia romantica e sofisticata, che richiama certi toni di Lubitsch, ma anche drammatica, che tratta temi pesanti come macigni – la malattia, la prospettiva di una morte prematura, l’assenza di futuro – con incredibile eleganza, leggerezza e ironia.
Dannati da qui all’eternità
Tutti associamo Da qui all’eternità all’immagine di Deborah Kerr e Burt Lancaster avvinghiati sulla spiaggia e accarezzati dalle onde, in una delle scene d’amore più iconiche della storia del cinema. Ma nel famoso film di Fred Zinneman del 1953 la traccia amorosa è in realtà solo uno dei tanti aspetti della vicenda narrata, basata sulle storie di vita e di amicizia di alcuni soldati all’interno di una base militare alle Hawaii, poco prima che l’America prendesse parte al secondo conflitto mondiale.
“Il pianista” memorie di un regista
Dentro al Pianista troviamo memorie, tracce, squarci che guardano, più o meno consapevolmente, all’infanzia di Polanski e che vanno a fondersi con i temi più ossessivi della sua filmografia: il passato che ritorna, la persecuzione per colpe non commesse, la molteplice incarnazione del male, il ruolo salvifico dell’arte, la realtà che sfuma in toni irreali, gli aspetti ironici della vita che viaggiano a braccetto con quelli macabri.
Uno, nessuno, centomila Philip Marlowe
“Nessuna cicatrice visibile. Capelli castani, con qualche traccia di grigio. Occhi marroni. Un metro e ottanta per ottantacinque chili circa. Nome: Philip Marlowe. Professione: detective privato”. L’identikit – che in realtà ci dice assai poco di Marlowe e forse volutamente – è quello che Raymond Chandler tratteggia nel suo Il lungo addio, sesto romanzo, uscito nel 1953, con protagonista il famoso investigatore privato. Una descrizione vaga ma preziosa, per tutte le trasposizioni cinematografiche.
“Frankenstein Junior” tra ironia e cinefilia
“Alive! It’s alive! It’s alive” (Vivo! È vivo! È vivo!). Rivedere la versione restaurata di Frankenstein Junior di Mel Brooks del 1974 sul grande schermo convince sempre più – caso mai lo si fosse dimenticato – che questo film è sempre vivo, un po’ come il suo immortale protagonista. Dopo quasi 50 anni dalla sua prima uscita, stupisce non poco vedere come i meccanismi narrativi, le battute, i tempi, le musiche, la fotografia, gli attori, funzionino ancora alla perfezione.
“Argentina 1985” e la linearità della giustizia
Al centro del film il personaggio di Strassera, interpretato dell’intenso Ricardo Darín, uno degli attori più noti del cinema argentino contemporaneo (e protagonista, tra le tante pellicole, di Il segreto dei suoi occhi, premio Oscar 2010 come miglior film straniero). Mitre insegue una minuziosa ricostruzione storica che realizza attraverso una scenografia e una sceneggiatura molto accurate ma anche attraverso la ricerca della somiglianza fisica degli attori ai personaggi reali, quasi a voler catturare nel modo più fedele possibile oltre che lo spirito del tempo anche la sua immagine (in alcune sequenze sovrappone direttamente alcune fotografie del processo alle immagini del film).
“The Forgiven” e lo sguardo straniero
La novità di questo adattamento però risiede, per McDonagh, in quella nota di esotismo che è una delle cifre letterarie di Osborne (per la quale lo scrittore viene spesso paragonato a Graham Greene) e che consente di guardare alla cultura anglo-occidentale da un punto di vista leggermente sfalsato. In The Forgiven i personaggi wasp sono visti come cosiddetti farang (termine che in Thailandia, dove da anni vive Osborne, viene usato per indicare gli stranieri): in questo caso un gruppo di persone sicure di sé, dei propri principi e della propria cultura, ma delle quali la terra straniera mette in luce ombre e fragilità.
“Il gigante” e la pastorale americana di George Stevens
“La grandezza appartiene a un altro periodo” fa dire George Stevens a uno dei personaggi del suo Il gigante. Eppure, per definire questa pellicola, non possiamo usare che questo metro: un grande film, di un grande regista, con grandi attori. Più o meno tutti conosciamo Il gigante, per averlo visto – per lo più in televisione – per averlo studiato o per averne sentito parlare. Ecco, questa specie di familiarità potrebbe talvolta averci distratto dalla sua straordinaria attualità e dal suo vasto respiro di classico.
“Come le foglie al vento” e la magnifica ossessione della ricchezza infelice
L’intera pellicola è infatti attraversata dai due elementi che compaiono subito nel prologo: una sotterranea seppur evidente vena di erotismo e un senso opprimente di tragico destino. Sullo sfondo rimane inoltre il tema della ricchezza portatrice di infelicità, argomento molto caro a Sirk, che solo due anni prima, nel 1954, ne aveva fatto la materia principale di Magnifica ossessione. “C’era una volta un povero ragazzo ricco” fa dire il regista a Marylee mentre si prende gioco del fratello. Ma se il denaro rimane un indelebile peccato originale, è l’irrecuperabilità del paradiso perduto a importare.
“La fiera delle illusioni” più adattamento letterario che remake
Del Toro ha esplicitamente dichiarato di non aver voluto inserire nessuna voce narrante esterna, nessuna strada notturna percorsa da uomini in cappotto, nessuna veneziana socchiusa da cui filtra qualche lama di luce, ma di aver invece voluto mantenere inalterato quel chiaroscuro, quella maniera obliqua che il noir ha di leggere la realtà. “Ho voluto fare un film – ha dichiarato – che fosse ambientato nel passato ma che parlasse del presente”. Un presente che il regista continua a raccontare attraverso la lente deformata di fauni, mostri marini, fantasmi e geek-mangiabestie.
“Illusioni perdute” tra aspirazioni e profitto
A dispetto dell’impianto classico e agli omaggi al grande cinema del Novecento, questo film risuona incredibilmente attuale e contemporaneo. A nulla vale un lungo rosario di oggetti antichi che saturano la scena: la pesantezza dei torchi tipografici, la leggerezza delle penne che si posano su fogli di carta volanti, la vischiosa materialità dell’inchiostro che sporca visi e coscienze. Forse perché il motore che muove tutti questi oggetti ormai perduti è una realtà che conosciamo bene e di cui abbiamo esperienza: l’irruzione del mercato e della legge del profitto nel mondo dell’informazione e dell’editoria.