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Tarantino, Pynchon e i vizi di forma

Tarantino mescola le carte di realtà e finzione – affiancando Rick e Cliff, due personaggi immaginari anche se ispirati a persone reali, a Sharon Tate, moglie del regista Roman Polanski – e crea una dimensione parallela, dove il vizio di forma – per dirla con un titolo di Thomas Pynchon – annulla una realtà danneggiata, corrotta e la rende pronta ad essere riscritta. E a pensarci bene, a dieci anni dall’uscita del libro di Pynchon, Tarantino ritorna, negli stessi luoghi e negli stessi anni di Vizio di forma, in quella dorata west coast che brilla alla luce aranciata del crepuscolo (magnificamente fotografata dal pluripremiato Robert Richardson), all’apice della propria bellezza ma anche alle soglie di una crudele ed inevitabile perdita dell’innocenza. E questa volta al posto dell’investigatore Larry Doc Sportello e dell’affascinante Shasta troviamo i due attori Rick e Cliff, due facce di una stessa medaglia.

“Partita d’azzardo” al Cinema Ritrovato 2019

L’indubbia metafora etica e politica, che aleggia alle spalle di questo delizioso film di Marshall, non toglie nulla a quella freschezza, a quel divertimento, a quella grazia leggera che oggi, a 80 anni di distanza dalla sua realizzazione, noi spettatori percepiamo ancora con nitidezza guardando Partita d’azzardo. È un Marshall impeccabile, che dosa con sapienza vari elementi: l’avvincente trama ispirata al precedente film del 1932 con Tom Mix, due attori famosi ma fino a quel momento lontani dal mondo western, diversi comprimari di talento come Misha Auer che interpreta il russo Boris, tempi comici perfetti, una sceneggiatura indovinata e una riuscita scelta di spazio, composizione e inquadrature.

“Memphis Belle” di William Wyler e la guerra da lassù

Fra la realizzazione di due dei suoi film di maggior successo – La signora Miniver (1942) e I migliori anni della nostra vita, entrambi pluripremiati agli Oscar rispettivamente con 6 e 7 statuette – il regista William Wyler si arruola nell’esercito americano diventando maggiore dell’Aviazione Militare Americana. Originario dell’Alsazia Lorena e di famiglia ebrea, Wyler non nutre dubbi sulla necessità di fermare la Germania nazista e nel ’43 viene inviato a Londra, come il collega John Ford, per documentare le azioni militari sul fronte britannico. Qui riceve l’incarico che sogna da un po’ di tempo: girare un documentario sull’equipaggio di un boeing B17 alla sua 25a missione: il Memphis Belle. Wyler prende lezioni di volo per filmare in alta quota il bombardamento aereo. Non vuole mostrare una versione stilizzata della guerra e non vuole risparmiarsi nulla

“Dolor y Gloria”, il cinema e il tempo che passa

Ci stupisce questo film, che nello stile non sembra quasi appartenere ad Almodóvar ma che è completamene fatto di lui e del suo cinema. Ci inchioda alla sedia della sala questa narrazione asciutta, sobria, matura, quasi trattenuta che si veste dei suoi soliti sgargianti colori – su tutti il verde, il rosso e l’azzurro – ma senza il sovraffollamento barocco a cui ci ha abituati. Ci incanta questo racconto che cita continuamente le pellicole passate e la sua vita presente, ma che travalica il dato biografico per diventare riflessione sul tempo che passa e in fondo anche sul cinema, sulla sua genesi e sul suo mutare. 

“Sarah e Saleem” e il riscatto impossibile

La regia fresca, sobria ed elegante di Alayan e l’ottima sceneggiatura contribuiscono a mettere in scena questa storia con naturalezza, facendo emergere in modo delicato ma efficace i sentimenti dei protagonisti ottimamente interpretati: la noia di Sarah, la tristezza e la voglia di riscatto di Saleem, la voglia di vivere di entrambi, le loro paure, le loro fragilità e – a seguito degli eventi – la loro crescita umana, in un climax di inaspettata forza d’animo e di insospettabili alleanze. Non da meno la bravura dei comprimari che mettono in scena personaggi interessanti e per niente scontati, come Bisan, la dolce compagna di Saleem che negli eventi che sconvolgono la sua esistenza trova la forza di affermare la propria indipendenza dalla famiglia e dal marito, o come l’ambizioso David che vive il tradimento della moglie come intralcio alla sua carriera e crede che basti nascondere lo scandalo per cancellare i problemi.

Speciale “The Mule” I – Fragile e fortissimo

Mentre guida il suo furgone trasportando droga per il cartello messicano, il novantenne Earl Stone ascolta Dean Martin che sulle note della famosa Ain’t That a Kick in the Head? canta “How lucky can one guy be? I kissed her and she kissed me” [Quanto può essere fortunato un ragazzo? L’ho baciata e lei mi ha baciato]. Questa scena di The Mule – storia vera e incredibile di Leo Sharp, nonno americano che diventa corriere di droga, ma anche storia on the road again di un regista che a 89 anni non ha finito di dirci quel che ha da dire – ci introduce, con scanzonata leggerezza e ironia, al tema complesso e potenzialmente doloroso che Eastwood ha deciso di indagare attraverso il film: quello della ricerca della felicità nel tempo che ci è concesso vivere, della realizzazione di se stessi nell’arco di una vita.

“Il gioco delle coppie”, la cinefilia ci salverà

“La finzione – ha dichiarato il regista – nasce sempre dall’esperienza, si inventa pochissimo, si trasportano piuttosto in termini artistici cose vissute o immaginate: c’è una connessione molto forte fra la nostra intimità e il modo in cui creiamo”. E questa considerazione ci porta direttamente alla riflessione sul rapporto della parola, della narrazione con i social network e con la rete, a partire dal racconto che facciamo di noi stessi e della realtà che ci circonda fino ad arrivare al concetto di post verità. Eppure il film è dedicato ai lettori e a chi ama il cinema, ed è puntellato di citazioni cinefile, da Luci d’inverno di Bergman, all’immancabile Gattopardo di Visconti fino al Nastro bianco di Haneke. Insomma la cinefilia (ritrovata) forse ci salverà.

 

“Disobedience” e il cantico della sensualità

“Niente è più tenero e autentico della reale sensazione di essere liberi. Liberi di scegliere”. Queste poche parole che Sebastian Lelio fa pronunciare a Dovid, nel momento di apice drammatico di Disobedience, racchiudono sì il cuore pulsante del film ma riassumono anche buona parte della poetica del regista cileno. I personaggi principali dei suoi due film precedenti si muovevano in una zona sospesa fra la ricerca della propria identità e il coraggio di rivendicarla. In quest’ultima pellicola questi temi si intrecciano a quelli della libertà di scelta e dai condizionamenti esterni, religiosi o sociali che siano. Ma il peso specifico e la classicità degli argomenti trattati sono perfettamente bilanciati da un racconto che alla fine risulta fresco, avvincente e toccante, grazie anche ad una regia attenta e rigorosa e alle ottime prove di interpretazione dei tre protagonisti.

“Sembra mio figlio” e l’incontro di tre vite

Questo è il primo film al mondo a narrare la vicenda di due profughi hazara ma la regista col suo racconto va oltre la tematica etnica, civile, di denuncia. “Sembra mio figlio – ha infatti dichiarato Costanza Quatriglio – vuole raccontare una storia europea, riguarda tutti noi che abbiamo saputo fare i conti con il nostro passato”. Ed è questo in effetti il cuore pulsante del film, il fulcro narrativo dai cui si dipanano le vicende di Ismail, di Hassan e di Nina. Ai dialoghi rarefatti – e spesso affidati alla freddezza metallica di conversazioni telefoniche – agli sguardi dolenti e sperduti, ai rari e improvvisi sorrisi che timidi squarciano lo schermo, la regista affida la complessità, la profondità e la pesantezza di un passato spaventoso. Di un passato con cui i protagonisti sono chiamati a fare i conti per poter sopravvivere.

“La fiamma del peccato” e il profumo dell’omicidio

Il film, ancor prima di essere film, è un incontro tra sguardi narrativi diversi: qui si ritrovano la curiosità di Wilder per l’ambiguità della natura umana, l’amore malinconico di Chandler per il rigore morale e il disincantato cinismo di Cain nel raccontare gli arrivisti. Il risultato di questo strano mix di ingredienti è uno dei noir più riusciti del cinema americano, dove una goccia di paura basta “per cagliare l’amore in odio”. Non è ancora un morto quello che racconta la sua storia in flashback – come sarà ne Il viale del tramonto – ma è l’ombra di un uomo che sta per morire. Già dai titoli di testa Wilder apre il film con l’ombra di un uomo con le stampelle che si avvina alla macchina da presa diventando via via sempre più grande, fino a fagocitare l’intero schermo e a sfumare in una Los Angeles notturna e febbricitante, fotografata da John F. Seitz in un bianco e nero che in alcuni momenti risente ancora degli echi impressionisti.

“Ma vie en Allemagne au temps de Hitler” nel silenzio della notte

“Voglio scrivere per non urlare nel silenzio della notte”: Ute Lemper – attrice e cantante tedesca da sempre impegnata nel ricordo dell’Olocausto – presta la voce alle tante testimonianze scritte che fanno da contrappunto alo scorrere delle immagini di Ma vie en Allemagne au temps de Hitler, documentario di Jérôme Prieur sui tedeschi fuggiti dal loro paese in seguito all’ascesa al potere di Adolf Hitler. Come spiegato durante la presentazione, dopo alcune letture di testimonianze sulla “notte dei cristalli”, Prieur ha voluto approfondire l’argomento studiando l’inchiesta di tre professori dell’Università americana di Harvard che nel 1939 avviarono un’indagine su cittadini tedeschi, per lo più di origini ebree, che erano fuggiti dal loro paese negli anni ’30

“Come vincere la guerra” di Roland Sejko al Cinema Ritrovato 2018

Nell’ambito delle celebrazioni della Grande Guerra l’Istituto Luce –Cinecittà ha prodotto Come vincere la guerra di Roland Sejko, un documentario dedicato alla rappresentazione del primo conflitto mondiale dal punto di vista americano. Partendo da filmati d’archivio del Nara (National Archives and Records Administration) e della Library of Congress, Sejko ci riconsegna una particolare visione degli ultimi anni del conflitto, a partire dalla dichiarazione di guerra degli Stati Uniti alla Germania nell’aprile 1917. Roland Sejko, regista di origine albanese e autore di Anija – La Nave (miglior documentario ai David di Donatello 2013), sceglie di raccontare questa narrazione di guerra attraverso una selezione di immagini più simboliche che didascaliche. 

Una storia di donne: “Il filo nascosto” di Paul Thomas Anderson

La maestria di Anderson prende forma, oltre che attraverso la sapiente regia, l’accurata sceneggiatura, la studiatissima colonna sonora, anche grazie alla fotografia e ad un uso della luce che sembra direttamente mutuato da Edward Hopper: la luce che entra dalle grandi finestre della casa è la luce radente del grande pittore americano, citato esplicitamente e improvvisamente nei rossi distributori nella stazione di benzina (Gas)  che spuntano mentre Reynolds mentre va in campagna, e richiamato indirettamente in tutti gli interni con persone chine, mute, sospese nel tempo così come nelle donne colte nell’intimità della loro sottoveste o nel Victoria Hotel che richiama le case hopperiane del New England.

Epico, lirico, ironico, cinico: “Tre manifesti a Ebbing, Missouri”

Il regista ci fa notare come i tre grandi manifesti del titolo vengano affissi su una strada secondaria del paese percorsa – dice il pubblicitario che vende gli spazi – solo da chi si è perso o si è ubriacato e i cui supporti non vengono usati da anni. “Se non ci si può fidare di avvocati e pubblicitari – risponde Mildred – cosa rimane dell’America?”. Infatti la giusta causa e la narrazione funzionano, quei tre manifesti alla fine vengono visti da tutti. Parlano a tutto il paesino e anche a noi spettatori.

Mary Astor e “Il Mistero del Falco”

Dal 1936 in poi chi guardava Mary Astor vedeva una bellezza altera e aristocratica che nascondeva in realtà una donna intelligente e spregiudicata. Un cortocircuito sinestetico che sicuramente John Huston aveva ben chiaro quando nel 1941, alle prese con la sua prima regia, le affidò – dopo il rifiuto di Geraldine Fitzgerald, impegnata in altra produzione – la parte di Brigid O’Shaughnessy ne Il mistero del Falco

“The Big Sick” e la trasformazione della commedia americana

Prodotto da Judd Apatow e ben accolto ai festival di Sundance e Locarno, il film è stato acclamato dalla critica statunitense e arriva ora in Italia con un carico di aspettative che probabilmente non rimarranno deluse. Il tema dell’integrazione degli immigrati, quello dei pregiudizi razziali da parte di una cultura verso un’altra, e quello ancor più universale del compromesso, della difficoltà di stare insieme (fra giovani innamorati, fra sposati di mezza età, fra amici e fra sconosciuti) sono tutti trattati con una  garbata delicatezza e al contempo con un’ironia che non risparmia nessuno.

Cinema Ritrovato 2017: Mitchum, lo sguardo sornione

Nice Girls Don’t Stay for Breakfast è il documentario su Robert Mitchum realizzato dal fotografo e regista Bruce Weber, che ha presentato l’ultima versione del suo work in progress al Cinema Ritrovato, dialogando con la giornalista e critica cinematografica Irene Bignardi. “Con Bob – ha dichiarato Weber – è come una storia d’amore che continua”. il ritratto che ne esce ha infatti i toni intimi e colloquiali di chi si racconta ad un amico, in modo sincero e ironico, con un Mitchum che non si prende troppo sul serio pur sapendo di essere un mito cinematografico vivente.

Cinema Ritrovato 2017: ancora su “Becoming Cary Grant”

“Everyone wants to be Cary Grant. Even I want to be Cary Grant” (“Tutti vorrebbero essere Cary Grant. Anche io vorrei essere Cary Grant”). Sotto la leggerezza e l’ironia di questa battuta, che Cary Grant pronunciava spesso – probabilmente suscitando risa e ammirazione negli astanti – si nasconde in realtà tutta la pesantezza del male di vivere di quello che il critico David Thompson definisce il “migliore e più importante attore della storia del cinema”.

Cinema Ritrovato 2017: “Frankenstein Junior”

 “Alive! It’s alive! It’s alive” (Vivo! È vivo! È vivo!). Rivedere la versione restaurata di Frankenstein Junior di Mel Brooks del 1974 sul grande schermo convince sempre più – caso mai lo si fosse dimenticato – che questo film è sempre vivo, un po’ come il suo immortale protagonista.  Dopo oltre 40 anni dalla sua prima uscita – e dopo le tante visioni che tramite tv, vhs e dvd hanno attraversato ormai generazioni – stupisce non poco vedere come i meccanismi narrativi, le battute, i tempi, le musiche, la fotografia, gli attori, funzionino ancora alla perfezione.

Aspettando Il Cinema Ritrovato: “Mildred Pierce”

In programma martedì 27 giugno nell’ambito del Festival del Cinema Ritrovato, il film Mildred Pierce di Michael Curtiz con Joan Crawford, è tratto dall’omonimo romanzo di James Mallahan Cain, noto più comunemente come James M. Cain. Autore di diversi racconti e romanzi scritti tra il 1934 e il 1975 – che per lo più affondano la narrazione in storie di avidità, ambizione, sesso e violenza – Cain è stato spesso fonte di ispirazione per il grande schermo.