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“Nope” di Jordan Peele e la negazione dello sguardo – Speciale parte I

“Non guardare” è il divieto di scrutare la creatura per non esserne vittima. Il legame tra il protagonista e le fiere non è casuale. Da sempre associato a una denigrante idea di brutalità, l’afroamericano ha subito sin dalla schiavitù un trattamento analogo a quello riservato agli animali. Nero e bestia sono stati addomesticati a forza (torna qui il legame con il western, la sua poetica e ideologia) ed entrambi hanno sviluppato un istinto di salvaguardia, un’inaccessibilità che in definitiva li rende imprevedibili e perciò irrimediabilmente pericolosi. 

In the Name of Soul. “The Blues Brothers” e l’abbattimento delle barriere

Ricca di una comicità rocambolesca e catastrofica, la pellicola si caratterizza però soprattutto per i cammei di grandi stelle della black music come James Brown, John Lee Hooker, Ray Charles, Aretha Franklin e Cab Calloway, irrinunciabili punti di arrivo e partenza per chiunque voglia approcciarsi alle sonorità afroamericane. Le loro esibizioni sono pietre miliari del cinema musicale tout-court: si pensi agli essenziali snodi narrativi rappresentati dai brani The Old Landmark, Shake A Tail Feather, Think o al virtuosismo vocale tipicamente nero di Calloway in Minnie The Moocher

Addio Zio Tom. “Non predicare…spara!” di Sidney Poitier

Non è casuale che Poitier scelga di cimentarsi con il western, genere per eccellenza dedicato all’elegia della nazione e alla celebrazione del suo mito fondativo, mostrandone però un altro aspetto, più oscuro, violento e volutamente omesso dalla narrazione dominante a partire dalla rappresentazione di cowboy neri, storicamente stimati come un quarto dei mandriani statunitensi ma totalmente assenti dall’immaginario hollywoodiano. Le peripezie dell’ex-sergente Buck e del Predicatore, impegnati nel condurre un gruppo di schiavi liberati esuli dalla Louisiana al Kansas, sono un chiaro riferimento alla condizione dei neri americani del tempo.

“Harriet” e il viaggio dell’eroina

Autrice attenta al tortuoso percorso di emancipazione femminile nera (La baia di Eva, Self-made – La vita di Madam C. J. Walker), con Harriet Kasi Lemmons firma la sua opera forse più riuscita, sentito omaggio a una delle figure più emblematiche della storia afroamericana. La vita di Harriet Tubman, ex-schiava abolizionista poi guida per altri fuggiaschi e infine combattente nella Guerra di Secessione contro il Sud, diventa esempio significativo e mai sufficientemente sottolineato del contributo dato dalle donne afroamericane alla causa nera dalla schiavitù a oggi.

“Sankofa” di Haile Gerima nel passato rivolto al futuro

Frutto di una ricerca ventennale sull’argomento, il lungometraggio racconta la schiavitù africana negli Stati Uniti dal punto di vista degli schiavi in una sorta di compendio del ribattezzato Maafa, “l’Olocausto nero” che provocò circa 10 milioni di vittime nella sola tratta atlantica. Evitando la narrazione violenta ed esibita delle atrocità subite dai deportati tipica del genere slaveploitation (Mandingo o Drum, l’ultimo mandingo) o del mondo movie Addio Zio Tom, Gerima pone l’accento sulla perdita di identità e coscienza razziale di alcuni e la resistenza fisica e culturale di altri all’oppressione bianca.

“Gli Stati Uniti contro Billie Holiday” e contro il coraggio di una voce

Daniels ripercorre sì vita e carriera dell’artista ma con un intento diverso: raccontare non quanto già noto (l’infanzia traumatica, la dipendenza da alcol e droghe, l’autolesionismo sentimentale) bensì inserire questi aspetti nel contesto più complesso e articolato del suo tempo. Il centro del film non è dunque la biografia di Billie Holiday, ma piuttosto l’impatto che la sua esistenza ha avuto sulla propria immagine pubblica e come le sue debolezze siano state più volte sfruttate per attaccarla e delegittimarla.

“Quando eravamo re” e le parole oltre le immagini

Frutto di una gestazione di circa vent’anni e a ventiquattro dalla sua uscita in sala, Quando eravamo re si dimostra ancora oggi uno dei migliori esempi di documentario sportivo della storia del cinema, testimonianza dell’epico match pugilistico valido per il titolo mondiale di pesi massimi tra Muhammad Alì e George Foreman, il primo tra due afroamericani tenutosi in Africa, nel 1974. La manifestazione assunse da subito un’enorme portata: negli anni del black pride, due atleti neri di prima categoria si contendono il più alto riconoscimento della loro disciplina nella terra dei loro avi, da cui secoli prima partirono le prime navi cariche di schiavi dirette verso l’America.

Critica all’intellettualismo bianco. “La specialista” di Mariama Diallo

Presentato al Sundence Film Festival e distribuito da Prime Video, La specialista è il primo lungometraggio di Mariama Diallo autrice che Variety ha inserito tra i registi emergenti più promettenti del 2022. Il film si inserisce nel fortunato filone del nuovo black horror statunitense, interessante veicolo di aspre e pungenti critiche al sistema nazionale e al razzismo più o meno latente che ancora lo permea a più livelli e in diverse forme. Dinamiche che Diallo individua e contestualizza nei college universitari, luoghi esclusivi ed escludenti deputati alla formazione della futura classe dirigente in cui inevitabilmente si riflettono in scala minore attuali problematiche sociali.

“Martin Luther King VS FBI” e il nemico dietro la porta

Montatore noto soprattutto per le numerose collaborazioni con Spike Lee nonché affermato documentarista, Sam Pollard ha da sempre ripercorso con il suo cinema vicende individuali e collettive che rappresentano capitoli portanti della storia nazionale afroamericana. Martin Luther King VS FBI persegue il medesimo intento, omaggiando una figura essenziale della politica e della società statunitense inspiegabilmente trascurata da Hollywood. Basato sui documenti dell’FBI recentemente de-secretati in attesa che altro materiale venga reso pubblico nel 2027, il lavoro di Pollard ricostruisce con cura minuziosa le forme di spionaggio e ricatto che l’ufficio federale ha adoperato ai danni del leader nero.

Chiedi chi era Sidney Poitier  

Difficile esprimere meglio l’impatto che Sidney Poitier ha avuto nel panorama statunitense dagli anni Cinquanta, quando coi suoi personaggi ha contribuito a scardinare gradualmente i presupposti iconografici hollywoodiani legati ai neri. Come Jackie Robinson per il baseball, Poitier è stato il primo attore afroamericano a rivestire ruoli da protagonista a Hollywood. La star nera per antonomasia del cinema nazionale, premiato da un successo duraturo e trasversale che ha superato la barriera del colore quale espressione di quel pensiero progressista che negli stessi anni stava prendendo piede nella società e nella cultura americana.

Nero a metà. “Il colore della libertà” e il nuovo cinema sociale americano

Il colore della libertà pare l’ennesimo film di impegno civile a sfondo razziale del cinema americano contemporaneo che, tra le produzioni indipendenti nere e quelle bianche hollywoodiane, si sta dimostrando uno dei filoni più redditizi e longevi del panorama nazionale. Ma il nuovo lungometraggio di Barry Alexander Brown supera le aspettative, proponendosi come efficace ritratto del teso contesto razziale statunitense degli anni Sessanta la cui evoluzione pare oggi ancora in corso. Come Spike Lee, il regista guarda al passato per riflettere sul presente, cercando nella storia del Paese le radici delle grandi questioni sociali ancora irrisolte.

Old Black West. “The Harder They Fall” e la storia americana

Quello che potrebbe apparire un divertissement cinefilo è invece l’azzardo di toccare il genere per eccellenza dell’elegia americana, attraverso il quale il pubblico novecentesco ha costruito un proprio immaginario e una – in buona parte falsa – coscienza storica. Il mito della terra selvaggia conquistata, domata e civilizzata dai bianchi ha rappresentato per decenni la fondamentale convinzione di essere nel giusto, gli eroi, i portatori di valori e ideali sui quali si è formato il pensiero maggioritario e il sogno a stelle e strisce da cui, per diritto ereditario, non si può essere svegliati. 

Melvin Van Peebles, l’alfiere nero che diede scacco al re bianco

Scomparso nei giorni scorsi, Melvin Van Peebles è stata una delle più poliedriche e significative figure del cinema afroamericano, secondo per notorietà solo a Spike Lee e John Singleton che paradossalmente devono proprio a lui parte della loro fortunata carriera, debitori entrambi al guerrilla style delle sue opere divenuto un modello valido ancora oggi per molti autori neri emergenti. Pittore, attore, sceneggiatore, regista, produttore, montatore, musicista e scrittore, fautore di un cinema politico e orgogliosamente indipendente: i suoi personaggi politicamente scorretti, violenti e poco istruiti hanno contribuito tanto alla creazione di un nuovo modello di afroamericano, non edificante ma vero.

Say My Name. “Candyman” e lo sfruttamento della cultura nera

Il nuovo Candyman è l’incarnazione del dolore e dei soprusi subiti dagli afroamericani, un inconfessabile e impronunciabile desiderio di vendetta celato a forza nel profondo (le cantine del quartiere) le cui conseguenze altrimenti sarebbero letali. L’antieroe morto nel primo capitolo torna allora a rivivere periodicamente in ogni nero vittimizzato e brutalizzato in primis dalla polizia i cui atteggiamenti faziosi e scorretti sono qui mostrati in tutta la loro crudezza, segno più che mai evidente dell’influenza che #BLM ha assunto non solo sul piano politico e sociale, ma anche e soprattutto culturale. 

Il tempo crea eroi. Oscar Micheaux pioniere del cinema afroamericano

Micheaux è l’unico produttore nero a passare indenne al sonoro, continuando una produzione di qualità pur se di nicchia fino al 1948 con un catalogo complessivo di circa 50 titoli, molti dei quali andati perduti per incuria o scarsa qualità dei supporti. Murder in Harlem (1935) segna una delle vette del cinema sonoro dell’autore; remake del proprio The Gunsaulus Mistery di una decina di anni prima, il film ricostruisce un noto fatto di cronaca di inizio secolo che vede una guardiano notturno nero accusato ingiustamente dell’omicidio di una giovane dipendente bianca. 

Da Lionel a Michael Rogosin. Il documentario che non finisce mai

Rogosin è tra i primi autori bianchi a occuparsi esplicitamente della realtà nera e la lotta per i Diritti civili negli Stati Uniti. Se Black Roots (1972) guarda alla coeva scena musicale black e al recupero della tradizione folk e blues per raccontare la nuova esperienza afroamericanista e Black Fantasy (1972) segue una coppia mista e la difficoltà di farsi accettare come marito e moglie, Woodcutters of the Deep South (1973) e il suo film più politico, un’inchiesta sulla The Gulf-Coast Pulpwood Association di Montgomery (Alabama), neonata cooperativa di taglialegna che vede uniti operai bianchi e neri al fine di tutelare i propri diritti contro le aziende che speculano sul lavoro e sulla sicurezza dei boscaioli.

La rivoluzione sotto la pelle. “Watermelon Man” e il ribaltamento iconografico

Mettendo in ridicolo per la prima volta i comportamenti dei bianchi, l’operazione di Van Peebles assume un notevole valore simbolico: primo film prodotto dall’industria bianca che ne ribalta dall’interno la logica iconografica, inaugurando un processo di rinnovamento le cui conseguenze sono ancora più visibili nel cinema odierno. Una rivoluzione non certo silenziosa, piuttosto gridata a gran voce come sottende il finale che allude ai nascenti movimenti neri militanti, espressione di una coscienza sotterranea maturata nella Nazione e ora pronta a emergere. 

“Follie d’inverno” e la danza sui problemi collettivi

il musical funziona proprio per questo, un sogno ad occhi aperti dove tutto finisce per il meglio con una risata e danzando sui problemi singolari o collettivi, come suggerisce la scenografia di John Harkrider per il locale Silver Sandal la cui pista da ballo riproduce una veduta aerea stilizzata della Grande mela. Proprio il ballo, come sempre in questo genere, diventa strumento essenziale per orientarsi nei vari triangoli amorosi che compongono la trama. “Ciascun numero di danza fa avvicinare e poi allontanare i due innamorati/ ballerini, in una deliziosa commistione di slancio e prudenza” (Ehsan Khoshbakht).

“American Skin” e le voci non ascoltate

Dopo l’esordio alla regia con The Birth of a Nation – Il risveglio di un popolo, Nate Parker torna a dirigere e interpretare il non meno polemico American Skin, anomalo film giudiziario che ha ricevuto l’endorsement di Spike Lee, ormai indiscutibile padre putativo del nuovo cinema afroamericano. Guardando alle opere d’impegno civile di Sidney Lumet, Parker mette in scena un processo ufficioso contro un poliziotto bianco già scagionato dall’omicidio del figlio del protagonista che amareggiato dal verdetto, assalta il municipio prendendo in ostaggio civili e agenti e formando con alcuni carcerati una giuria popolare che dovrà esprimersi in merito.

Monte Hellman e l’illusione del mito americano in “Cockfighter”

Per ricordare Monte Hellman, scomparso il 20 aprile 2021, ricordiamo il suo Cockfighter. L’autore di Greenpoint debutta con Roger Corman nel 1959. Guardando i suoi lavori (Le colline blu, Ride in the Whirlwind, 1966; La sparatoria, The Shooting, 1966; Strada a doppia corsia, Two-Lane Blacktop, 1971 o Iguana, 1988) è riscontrabile il metodo produttivo del maestro – film a basso costo, ma ricchi di un acuto sottotesto – rielaborato secondo la propria sensibilità e idea di cinema. Ne risulta così uno stile caratterizzato da un’astrazione tendente all’onirismo, con tempi dilatati, staticità della macchina da presa, personaggi enigmatici e un forte simbolismo che carica di significati “altri” le immagini sullo schermo.