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“Diabolik – Ginko all’attacco!” e la visione fumettistica

I fratelli Manetti dirigono in maniera ancor più fumettistica, rispetto al primo capitolo, un testo che, come in passato, è un fumetto già dall’uso del “voi” tra i personaggi. Si pensi al ralenti del gettone telefonico che viene lanciato alla ballerina nella sequenza successiva ai titoli di testa, al lancio del pugnale, agli scambi di sguardi – quello a chiusura della linea narrativa tra Valerio Mastandrea/Ginko e Altea è intriso anche di cultura pop, infatti potrebbe ricordare lo sguardo sornione e contrito di Jerry Calà nel finale di Sapore di mare di Carlo Vanzina – ai primi piani e al frequente uso di dettagli e del campo-controcampo; strutturati e composti in maniera quasi desueta rispetto alla classica costruzione del quadro cinematografico.

“Catherine Called Birdy” ovvero il diario medievale di una teen ager

Catherine Called Birdy è un film distribuito da Prime video e tratto dall’omonimo romanzo di Karen Cushman di cui mantiene la forma di racconto attraverso il diario. Questo sembra rendere infantile l’intera vicenda, ma in realtà aiuta a esplicitare il fatto che ciò a cui stiamo assistendo è esclusivamente la visione della protagonista. L’adolescenza spesso genera una chiusura in sé stessi o comunque questo è ciò che succede al personaggio di Birdy – un’adolescente spregiudicata un po’ alla Catherine Spaak  ne I dolci inganni e La voglia matta – che la Dunham tiene sempre al centro dell’inquadratura e alla quale dedica la maggior parte dei primi piani e piani medi.

“Ti mangio il cuore” e la tradizione incontrastabile

Ti mangio il cuore, tratto dall’omonimo romanzo d’inchiesta di Carlo Bonini e Giuliano Foschini, si svolge in un un universo chiuso in sé stesso fatto di masserie, campi, paesi arroccati, allevamenti, sterco e fango, sembra non esistere qualcos’altro oltre il promontorio. La regia di Pippo Mezzapesa spesso si sofferma sui primi piani delle persone che con il Gargano sono diventati un tutt’uno e a tratti questa scelta può portare a pensare alle significative inquadrature di Daniele Ciprì e Franco Maresco in Totò che visse due volte o anche de Lo zio di Brooklyn.

La commedia tedesca degli anni Trenta e il dramma occultato

Il popolo tedesco aveva da poco passato il periodo buio del primo dopoguerra. Il clima generale dopo il 1925 (e il piano Dawes) si era disteso, ma con la crisi del ’29, la contraddizione della Repubblica di Weimar aveva riportato un clima tragico. Venne introdotto il sonoro e molti registi e attori emigrati ritornarono in patria. Intanto l’U.F.A. iniziò a produrre pellicole dai toni e dalle tematiche più leggere. Il nazismo avanzava minaccioso predicando nuove guerre. In questo clima vengono prodotti molti film a tema pacifista e queste commedie musicali.

“Cantando sotto la pioggia” e il miracolo collettivo

La nostalgia di Donen e Kelly per l’epoca d’oro di Hollywood è celata dietro personaggi che non affrontando reali difficoltà e che trovano nell’esibizione canora e danzata un modo per andare avanti. Il pubblico, straordinariamente entusiasta per riuscire a trattenere le proprie emozioni, finisce per applaudire alla fine di ogni numero musicale. Spettatori (cinefili e non e di tutte le età) abituati, rispetto alla sola televisione dell’epoca in cui uscì Singin’ in the Rain, ad avere accesso a diversi dispositivi tecnologici, utilizzati anche per guardare film pensati per lo schermo da sala, ma che hanno deciso di riunirsi in questa occasione per poter (ri)vedere il film mediante una fruizione più tradizionale. 

Equivoci e frastuoni. Commedie musicali tedesche 1930-32

Era l’inizio degli anni Trenta quando questi film vennero distribuiti nelle sale cinematografiche tedesche. Le loro allusioni, la leggerezza della trame e di conseguenza l’evasione dalla realtà che questi portavano agli spettatori, vennero giudicati male da tutta la politica dell’epoca, sia quindi dai nazisti che dagli oppositori. Cosa unisce i film Wer Nimmt Die Liebe Ernst?, Die Privatsekretärin, Ich Bei Tag und du Bei Nacht e Der Brave Sünder? Sicuramente le frivole storie d’amore, la musicalità, le scene di ubriacatura, gli imbrogli, gli equivoci e si potrebbe continuare. Tutti questi elementi sono al servizio di uno spettatore alla ricerca della leggerezza, del conformismo, ma senza rinunciare a una forma che in un certo qual modo può anche essere ricercata. 

“Crazy to Marry”: una mimica fra circo e vaudeville

L’umorismo di Crazy to Marry è per lo più fondato sulle gag relative all’aspetto fisico di ‘Fatty’ Arbuckle e alla mimica, sua e di Lila Lee, a metà fra circo e vaudeville. Il personaggio del dottor Hobart Hupp vede nel corso del film una crescita progressiva: all’inizio sembra innocuo e non particolarmente arguto, ma sul finale, portato all’esasperazione dagli eventi, diventa finalmente un essere capace di astuzie. Questo tuttavia non basta a far percepire il film come particolarmente esilarante. Si potrebbe anche pensare che, blasfemamente, il suo elemento di maggior intrattenimento siano le eccessive didascalie di dialogo.

“Ihre Majestät die Liebe” al Cinema Ritrovato 2022

Ihre Majestät die Liebe è una commedia che, a distanza di tempo, conserva il suo brio e celebra il rapporto tra il moderno capitalismo e la vita notturna tedesca: fiumi di spumante scorrono in ogni dove, gli abiti, anche i più umili, sono sempre sfarzosi, i palazzi e il loro arredamento sono estremamente moderni. Il film mostra una Germania che di lì a poco non ci sarebbe più stata. Molti membri del cast e della produzione erano di origine ebrea e dopo la presa del potere da parte dei nazisti furono costretti a lasciare il paese e Otto Wallburg e Kurt Gerron morirono nei campi di concentramento.

“Carmen” con parvenza realistica. Francesco Rosi e l’opera di Bizet

Rosi realizza un film-opera molto fedele all’opera di Bizet, fondato su un buon connubio tra musica e immagine e lo ambienta in una Spagna solare, aiutato dalla bella fotografia plastica e dai toni caldi di Pasqualino De Santis. Infatti Rosi ricostruisce e conferisce una parvenza realistica alle diverse scene come quella della manifattura di tabacco dove Carmen e le altre donne lavorano. Lì si può notare l’enorme quantità di bambini, presenti in scena, che le madri affannate, accaldate, ma potenziali seduttrici come le altre, erano costrette a portare con sé.

“La fiera delle illusioni” senza redenzione

A un primo livello il personaggio di Stan è avvicinabile per movenze e abiti al protagonista de Il postino suona sempre due volte di Tay Garnett (1946). Però a Guillermo del Toro non basta e quindi inserisce alcuni tratti del Frank del remake di Bob Rafelson, ma non è ancora sufficiente. Quindi se il personaggio interpretato da Jack Nicholson passa dall’avere una spiccata propensione alla negatività al diventare negativo, quello interpretato da Bradley Cooper è un predestinato, può solo ricevere e dare morte, opprimere ed essere oppresso, incantandoci e illudendosi di non esserlo. Del Toro ci mette quindi davanti a un film disperato e a una storia ingannevole.

“Diabolik” e il fotogramma come fumetto

I fratelli Manetti dipingono una versione degli anni Sessanta che guarda ai grandi maestri del cinema, da Mario Bava a Dario Argento e soprattutto Alfred Hitchcock, diversamente da come lo avrebbe fatto un manierista come Luca Guadagnino. Decidono infatti di inquadrare gli attori e le atmosfere con uno sguardo fumettistico. Questo Diabolik non vuole essere un film tratto da un fumetto, ma sembra quasi voler continuare ad essere un fumetto. E sla “lentezza” della narrazione che in molti stanno criticando negativamente è per i Manetti una scelta nella resa dell’immagine di voler catturare quel momento e imprimerlo in fotogrammi come se fosse disegnato e stampato su carta.

“Una relazione” come le altre ma diversa da tutte

La loro ingenuità è velata di un certo candore e sincerità, dovuti alla scrittura di Stefano Sardo (al suo esordio alla regia), in coppia con Valentina Gaia. I dialoghi e le interruzioni, quei momenti di sospensione e di divagazione sono talmente verosimili e coinvolgenti che non si può non rimanere seduti fino alla conclusione dei titoli di coda. L’ambizione dei due protagonisti, interpretati da Guido Caprino e Elena Radonicich, ci spinge a sognare. Prima o poi però bisogna scontrarsi con la realtà, sono cresciuti in quei quindici anni e quel qualcosa che li porta alla separazione non può essere senza sofferenza.

“Lo scoiattolo” e il cinema d’avanguardia di Ernst Lubitsch

A distanza di cento anni dall’uscita del film il giudizio degli spettatori si è completamente ribaltato. Ora non è più un fiasco clamoroso e le persone si mettono in fila per vederlo e soprattutto rivederlo, essendo stato restaurato dalla fondazione Murnau e pubblicato in Dvd qualche anno fa. L’antimilitarismo di Lubitsch e la sua audacia nella tecnica e nella raffigurazione del ruolo femminile sono incredibili. Il suo abuso ironico dei mascherini (merlettati, ondulati, geometrici, ovali, e così via) per incominciare alcuni sketch e i volti dei personaggi hanno tutt’ora un fascino a dir poco magnetico. Lubitsch e la sua troupe costruiscono un’opera all’avanguardia per i tempi, e che certamente rimane tra le pellicole più significative della storia del cinema.

“Dancers in the Dark” al Cinema Ritrovato 2021

Il film è tratto dalla pièce teatrale Jazz King di James Ashmore Creelman. Dancers in the Dark di David Burton è una commedia senza grandi pretese e la sceneggiatura firmata da Herman J. Mankiewicz è contraddistinta da un umorismo piuttosto greve e inelegante. Gli episodi di cui si compone la narrazione principale non riescono a suscitare un grande interesse poiché, già dalla presentazione dei protagonisti, le svolte narrative sono tutte eccessivamente prevedibili. Inoltre le domande che rimangono senza risposta sono troppe ed è impossibile non dare peso a queste mancanze. L’intreccio fra Duke, Floyd e Gloria, interpretata da Miriam Hopkins, tende ad un finale piuttosto ordinario, ma divertente.

“Ho sognato un angelo” e l’identificazione del destino

Penny Serenade è un film sulla famiglia, ma soprattutto è un grande film sul lutto, qui affrontato con una sensibilità difficilmente comparabile. Stevens riflette sul tema della morte e su quello della sua accettazione e medita sul tema dell’amore e del donare affetto. Il destino dei protagonisti è infausto, ma questi trovano in qualche modo la forza per ricominciare. Durante il loro percorso Julie e Roger devono affrontare molte prove, ma non sono da soli. Infatti in loro soccorso si presentato puntualmente due figure bellissime, quella della signora dell’orfanotrofio che vede la purezza della coppia e soprattutto quella dell’amico e “zio” Applejack. Questi aiutano a mantenere il difficile equilibrio tra le diverse tonalità emotive che attraversano il film.

“Laughter” tra Hemingway e Fitzgerald

Sebbene il film abbia una forte impostazione teatrale, anticipa la screwball comedy nella raffigurazione della dinamica della coppia formata da Nancy Carroll e Fredrich March. E nonostante la trama subisca eccessivi rallentamenti indirizzati al climax della storia, quest’ultima si regge su alcune idee originali che oscillano fra toni tragici e toni spassosi. La tematica dello sfarzo e quindi la lotta all’interno di Laughter tra i ricchi capitalisti e gli artisti squattrinati si sposa a quello che Ernest Hemingway in Festa mobile scrive dei giovani della cosiddetta generazione perduta: “Tutto rientrava nella lotta contro la miseria che non si vince mai se non spendendo. Specie se compri quadri invece che vestiti. Ma allora non ci consideravamo mai poveri. Era una cosa che non accettavamo. Ci consideravamo esseri superiori, mentre ricche erano altre persone che guardavamo dall’alto in basso e nelle quali giustamente non nutrivamo fiducia.”

“La donna del giorno” commedia della mancanza

Woman of the Year è una commedia che invecchia meglio di altre, la sua tematica è a suo modo vicina ai dibattiti contemporanei sull’equilibrio all’interno della coppia e sul ruolo dell’uomo e della donna che vengono costantemente parodizzati. Stevens dirige poi i suoi attori seguendoli all’interno delle scene e dona loro un palco dove possono esprimere sinceramente le loro emozioni più recondite. Così basta un primo piano su Tracy per cogliere la sua crescente irritazione per gli atteggiamenti della compagna o per l’estraniazione che prova all’interno della festa, quando tutti gli altri invitati non parlano inglese.

“Million Dollar Legs” e il piacere del comico

Il film è scandito da una frenetica serie di gag slapstick, meno raffinate ed elaborate di quelle di Keaton e più improntate verso la comicità alla Stan Laurel e Oliver Hardy e quindi alle cosiddette “torte in faccia” alla Mack Sennett. Così il protagonista di Million Dollar Legs è un onesto lavoratore come il personaggio di Keaton, ma la chiave del film è nel ribaltamento, all’interno del testo, della condizione ordinaria di un mondo già di per sé straordinario perpetrato dall’insieme dei personaggi, che è avvicinabile alla comicità dei fratelli Marx. Questo si deve soprattutto alla scrittura della sceneggiatura ad opera di Joseph L. Mankiewicz, che si sposa bene alla regia di Eddie Cline.

“Agente Speciale 117 al Servizio della Repubblica – Missione Cairo” tra Clouseau e lo slapstick

Hubert Bonisseur ha le movenze dello 007 interpretato da Sean Connery, ma balla come l’ispettore Clouseau di Steve Martin in La pantera rosa. Vorrebbe avere il fascino di Connery, ma finisce per raggiungere un livello più basso della sensualità del Clouseau di Peter Sellers nelle sporadiche scene conturbanti. Questo perché è un personaggio profondamente svogliato. L’agente 117 e i suoi sorrisi ebeti, che precedono le smorfie di Dujardin in The Artist, sono spesso divertenti e alcune gag più di altre rimangono impresse, si pensi alla parola d’ordine, ai pantaloni sudati dopo l’escursione, sotto il sole del deserto, a dorso di cammello e le scene di lotta che sembrano flemmatiche coreografie di danza contemporanea.

Jean Renoir legge Charlie Chaplin

Tempi moderniMonsieur Verdoux e Luci della ribalta sono probabilmente i film più complessi da affrontare della filmografia di Charlie Chaplin e Jean Renoir nei suoi scritti li affronta tutti e tre. “Questo rinnovamento interiore è uno dei segni del genio. Presuppone un coraggio forse inconscio, ma innegabile. Pochi autori possiedono questo coraggio. Credono di mettersi al livello di quella che chiamano ‘la massa’, evitano accuratamente ogni originalità interiore, e si limitano a dare l’impressione del rinnovamento […]. Aspetto con impazienza il momento in cui questa massa, che essi credono di aver conquistato, avrà infine la sua parola da dire e spazzerà via come si deve tutta questa elegante gentaglia”.