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Caméra-car-stylo. La libertà stilistica di “Caro diario”
Nuova carrellata antologica di scritti su (e di) Nanni Moretti in occasione dell’uscita del restauro 4k di Caro diario. Come scrive Morando Morandini: “Chi, se non l’Antonioni di L’avventura – ma è solo un esempio – ha avuto un occhio così, a dimostrazione che la fotografia non è soltanto tecnica di riproduzione della natura, ma visione e interpretazione del mondo? Nella sostanza, però, Caro diario non è narcisista. Moretti rischia di trovarsi addosso l’etichetta dell’autobiografismo che fu attaccata a Fellini. La morte di Pasolini è un vuoto che tocca molti di noi, una bella minoranza. Quel che racconta o inventa corrisponde alla realtà”.
Il colore delle margheritine
Chi vede Daisies – Le margheritine, nello splendido restauro digitale 4K (sostenuto dal Festival Internazionale del Cinema di Karlovy Vary, in collaborazione con il Národní filmový archiv di Praga, il Czech Film Fund, UPP e Soundsquare, a partire dai negativi immagine e suono originali e dai nastri magnetici originali di missaggio) nota subito l’incredibile uso creativo del colore. Scopriamo di più grazie a questo doppio approfondimento.
“Daisies – Le margheritine” secondo la regista e la critica
“Non si tratta di un affresco psicologico né realista nel senso tradizionale dei termini. È piuttosto l’immagine di un certo modo di capire e di vivere la propria vita attraverso la storia volutamente esagerata di queste due ragazze che, per così dire, non sono se stesse. In quanto esseri umani, non sono disposte ad accettare, dare e creare la loro vita e il loro mondo, e quindi la vita ed il mondo degli altri. Vivono da parassiti, e non solo nei riguardi dei loro simili, ma anche, ed è essenziale, nei riguardi di se stesse” (Vera Chytilova).
“Él” nella storia della critica
In occasione della distribuzione di “Él” restaurato, ecco un viaggio nella critica e nell’analisi del film, con tante firme importanti che se ne sono occupate: “Si ritrova in Él la stessa obiettività documentaria esacerbata che era all’inizio del film Las Hurdes. Buñuel ama dire che egli si è interessato a Francisco con la curiosità con cui avrebbe osservato il comportamento di un topo. Dice anche che ha gusti da entomologo e che osserva il suo personaggio come un insetto” (André Bazin).
“Él” ritratto di un paranoico. Nascita di un capolavoro
In occasione della distribuzione di “Él” restaurato, ecco alcune dichiarazioni di Luis Buñuel e alcune fonti critiche dedicate alla storia della pellicola. Secondo l’autore “Él è uno dei miei film preferiti. A dire il vero non ha niente di messicano. L’azione potrebbe svolgersi in qualsiasi posto, dato che presenta il ritratto di un paranoico”. Secondo Farassino, “un saggio di entomologia umana”, tra i picchi del periodo messicano.
“I guerrieri della notte” nell’inferno della città
Breve viaggio intorno alle fonti secondarie dedicate al capolavoro di Walter Hill, che ci spiegano perché ancora oggi I guerrieri della notte sia considerato un cult impareggiabile. Come ha scritto Pauline Kael: “The Warriors ha un’intensità magnetica. Si svolge dalla notte all’alba, e gran parte dell’azione ha i colori vivaci e brillanti dei pennarelli fluorescenti sullo sfondo dello spaventoso buio newyorkese; le figure si stagliano come un juke-box in un bar scuro. Per tutta la sua durata, questo film barocco possiede una brillantezza psichedelica, che sboccia nella notte”.
“Sciuscià” e la genesi del film
“Erano i giorni che sapete e ne avevo già visto abbastanza per sentirmi profondamente turbato, sconvolto; le donne che andavano in camionetta con i soldati, gli uomini e i ragazzini che si buttavano in terra per afferrare le sigarette o le caramelle. Agli adulti pensavo meno che ai bambini; e pensavo: ‘Adesso sì che i bambini ci guardano!’. Erano loro a darmi il senso, la misura della distruzione morale del paese: gli sciuscià” (Vittorio De Sica”).
“Sciuscià” e la critica
Il ritorno in sala di Sciuscià, all’interno del progetto Cinema Ritrovato al Cinema, permette di guardare con occhi nuovi al capolavoro neorealista di Vittorio De Sica. Ci accompagnano nella riscoperta alcune fonti critiche (sia d’epoca sia della cinefilia moderna) decisamente suggestive. Come scriveva Dino Risi: “Sciuscià è un film italiano, italiano come la nostra miseria, come il nostro sole a lutto, come il nostro amore ferito”.
“Strade perdute” tra musiche e suoni
Breve antologia di riflessioni e dichiarazioni intorno al maestoso e conturbante lavoro su suoni e musiche nel film di Lynch: “David mi ha descritto l’immagine del mondo dove la storia è ambientata, un mondo di doppia identità, di misteri, di labirinti mentali e mi ha descritto il tipo di musica che voleva: molto astratta, oscura, capace di insinuarsi in profondità, sotto i dialoghi, di muoversi lentamente come qualcosa di bellissimo ma cupo”.
“Strade perdute” e la critica
Il ritorno in sala di Strade perdute permette un breve ricognizione su quello che uscì all’epoca, da parte di una critica al tempo stesso spiazzata e ammirata dallo sperimentalismo di Lynch. Come scrisse Thierry Jousse, del resto, “il principio di narrazione schizofrenica svolge un ruolo decisivo nella destabilizzazione suscitata dalla pellicola, poiché impedisce chiaramente qualsiasi principio di identificazione, sbarrando ogni accesso privilegiato al senso”.
Gene Kelly e Stanley Donen autori alla pari
“Stavo io dietro la macchina da presa e Gene Kelly davanti? Non c’era una divisione prestabilita del lavoro di regia, non c’erano regole fisse su ciò che faceva uno e ciò che facevo l’altro. Abbiamo trovato soluzioni, pianificato e lottato. All’epoca lui era molto più importante di me. Era una star, aveva un grande potere. Bisognava sapere come tenergli testa. Bisognava trovare il modo di offrire qualcosa per compiacere l’altro. Anche lui doveva compiacermi. I.A.L. Diamond, che ha lavorato a lungo con Billy Wilder, diceva di sapere che stavano collaborando quando proponendo qualcosa a Wilder lui rispondeva: ‘Perché no?’. Questo è collaborare”. (Stanley Donen)
“Cantando sotto la pioggia” e la critica
Infornata di approfondimenti critici autorevoli sul capolavoro di Donen/Kelly. Per esempio il grande Claude Chabrol che scrive: “Sotto la pioggia, un uomo canta e balla. Con quest’acqua l’uomo inizia un grazioso balletto. Lo spettatore, suo complice, canta e balla con lui sotto lo sguardo sconcertato di un poliziotto. E quando l’uomo sullo schermo, con l’ombrello puntato verso il cielo, si arrampica su un lampione, il suo complice, nel buio della stanza, tende a imitarlo. Questo si spiega solo con la presenza di un artista la cui macchina da presa, agile e leggera come lui, sa farci sentire la soave purezza delle cose e una profonda emozione di felicità”.
“The Great Buster” e il grande Bogdanovich
Data questa premessa, che cosa possiamo trovare nell’osservare il film di Peter Bogdanovich, regista che ha sempre manifestato interesse per la storia del cinema e degli autori (si veda il film Diretto da John Ford e il testo Il cinema secondo Orson Welles) sulla storia di Buster Keaton? Emerge la volontà di Bogdanovich di realizzare un racconto onnicomprensivo, in cui possa trovare spazio tutto: documenti, interviste, materiali d’archivio, biografia, aneddotica, un accenno alle dinamiche dello studio system a cavallo dell’introduzione del sonoro, analisi del film e critica.
“Casco d’oro” e la ricezione. Storia di una legittimazione cinefila
È difficile credere che Casco d’oro, oggi considerato da tutti il capolavoro di Jacques Becker, sia stato largamente respinto alla sua uscita in Francia perché considerato una delusione rispetto ai precedenti film dell’autore. Sembra che a deludere la critica francese sia stato il fatto che Becker, fino ad allora considerato il cronista della società francese contemporanea, avesse realizzato un dramma in costume. Ma per Becker Casco d’oro non era un film in costume in senso tradizionale. La sua ricostruzione della Parigi fin-de-siècle è minuziosamente dettagliata, e all’interno di essa il cast si comporta come se fossero nel loro habitat naturale.
Philip Kemp, “Sight and Sound”, dicembre 2012
“Casco d’oro” e la critica
Nell’antologia critica del film restaurato, di ritorno nelle sale di prima visione, spiccano le parole di Lindsay Anderson: “Quando in Inghilterra scrissi la recensione di Casco d’oro, tentai di definire la scintilla che faceva splendere l’opera di Becker, e conclusi che in definitiva si trattava ‘di una simpatica fascinazione di fatti e di gesti’. Volevo così sottolineare la complicità che esiste tra Becker e ciò che si potrebbe definire ‘il superficiale’; non che sia un regista superficiale, ma per lui il superficiale non è mai fuori luogo. È affascinato dagli oggetti, dalle scenografie, e dal modo in cui rivelano i pensieri, le convinzioni e le emozioni degli uomini e delle donne che li utilizzano”.
Una visita al Bates Motel
“Con l’aiuto della televisione, l’omicidio andrebbe portato nelle case, perché il suo posto è lì. Alcuni dei nostri omicidi più deliziosi sono stati domestici: perpetrati con tenerezza in posti semplici e accoglienti come il tavolo della cucina o la vasca da bagno. Niente ripugna di più il mio senso del decoro di un teppista di strada che è in grado di assassinare chiunque, perfino persone che non gli sono nemmeno state presentate. Dopotutto, sono sicuro che sarete d’accordo con me, l’omicidio può essere molto più affascinante e piacevole, anche per la vittima, se l’ambiente è confortevole e le persone coinvolte sono dame e gentiluomini come voi qui presenti”. Parola di Alfred Hitchcock.
“Psycho” e la critica
Con la distribuzione in prima visione della versione restaurata di Psycho, altro tassello del mosaico storico cinematografico del progetto Cinema Ritrovato al Cinema, ci troviamo di fronte a uno dei film più analizzati di sempre. Vediamo una ricca antologia critica intorno al capolavoro di Alfred Hitchcock. Del resto, come scriveva Dave Kehr, “il capolavoro di Alfred Hitchock unisce una brutale manipolazione del principio di identificazione del pubblico con uno stile visivo incredibilmente denso e allusivo per creare il film più moralmente inquietante mai realizzato”.
“Videodrome” e la critica
Che cosa di disse, all’epoca, di Videodrome? L’antologia critica del capolavoro di David Cronenberg restaurato (in sala grazie a Cinema Ritrovato al Cinema) è decisamente istruttiva. Come scriveva Tim Lucas nel 1983: “Videodrome sembra essere l’unico film finora prodotto negli anni Ottanta ad avere un senso chiaro di quello che comporta la sua decade, l’unico che affondi i denti nella carne del suo tempo. È incentrato sul pubblico: il suo bisogno di evasione, la sua amara mancanza di soddisfazione, il suo flirtare nichilistico col dolore per provare che può ancora sentire qualcosa, l’estremo spiazzamento che tutto questo comporta”.
“Lo chiamavano Trinità” e la genesi del film secondo Barboni e Girotti
Parola a Terence Hill: “Il merito di aver messo insieme me e Bud Spencer fu di Giuseppe Colizzi, con cui facemmo Dio perdona… io no!, I quattro dell’Ave Maria e La collina degli stivali. Dopo questi film io e Bud stavamo cercando lavoro, avevamo già visto due o tre copioni che non ci erano piaciuti. Intanto Barboni andava in giro per Roma con una sceneggiatura intitolata Lo chiamavano Trinità. I produttori l’aprivano e dicevano: ‘Cos’è tutto questo dialogo? Non ci sono morti? Passo!’. Noi decidemmo subito di correre il rischio. Sì, perché era considerato da tutti un rischio fare un film così strano, con delle battute particolari.
Parla Joseph Losey
“Il film è stato piacevole da fare: tutti quanti si volevano bene. Quando fu finito, i produttori cominciarono ad avere delle preoccupazioni. Dicevano: ‘Sa, non è commerciale, non andrà bene’, e naturalmente il film è andato bene. E anzi per me fu l’inizio di una nuova carriera e di una nuova vita. Fu anche l’inizio di una carriera per Sarah Miles e per James Fox, la prima volta in cui Richard MacDonald ottenne un vero riconoscimento, e una svolta nella carriera di Dirk Bogarde, senza parlare del riconoscimento del direttore della fotografia, Douglas Slocombe.