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“America 1929” e la galleria degli outsider
Cavalcando l’onda del successo dei gangster movie contestatari à la Gangster Story, America 1929 – Sterminateli senza pietà segue le peripezie della vagabonda Bertha Thompson e dei suoi tre complici, un baro, un sindacalista “bolscevico” e un “negro” lungo le ferrovie del sud degli Stati Uniti tra razzismo, intolleranza e Grande Depressione. I protagonisti dunque non sono i classici gangster che agiscono nella disperata rincorsa dell’effimero sogno americano, bensì emarginati che inaugurano l’ampia galleria di outsiders scorsesiani. Per ragioni diverse, dovute a sesso, stile di vita, ideologia o razza questi antieroi sono mossi dal bisogno di essere accettati da una società che invece li respinge, additandoli come minacce per il proprio equilibrio ora minato ed incrinato dalla crisi del 1929.
Nascita e anatomia di “Toro scatenato”
Con la solita schiettezza e passione, Martin Scorsese ha sempre tributato a Robert De Niro un apporto creativo superiore alla semplice (e pur indimenticabile) interpretazione di Toro scatenato: “È stato Bob a voler fare quel film. Io no: non capivo niente di pugilato. Cioè, capivo soltanto che è una specie di partita a scacchi fisica. Ci vuole l’intelligenza di uno scacchista, ma la partita la giochi col corpo. Uno può essere completamente ignorante e rivelarsi un genio nell’arte del pugilato. Quando ero piccolo, guardavo al cinema gli incontri di pugilato e non riuscivo mai a distinguere i pugili. Ma avevo un’idea, per quanto minima, delle motivazioni di un pugile, e capivo perché Bob volesse a tutti i costi interpretare il ruolo di Jake La Motta. Proveniva dallo stesso ambiente di operai italoamericani; da ragazzi lui e il fratello erano due ladruncoli e questa era la storia di due fratelli”.
“Who’s Bad?”. Martin Scorsese e il videoclip
Si sa che per Michael Jackson è evidente il fenomeno del crossover, vale a dire il fatto che la sua musica si rivolga anche o soprattutto ai bianchi. Zombificazione compresa, nel video di John Landis la questione del “colore” della sua musica resta marginale e dunque ambigua, ma in quel caso si ha a che fare con un contesto middle class. In Bad, al contrario, Scorsese affronta la questione di petto e inserisce Michael Jackson in un contesto disagiato e dichiaratamente nero, in cui le dinamiche razziali e classiste pregiudicano l’autorealizzazione dell’individuo. Ed ecco che Darryl, vero e proprio pesce fuor d’acqua, tenta di autolegittimarsi sostenendo che si può essere bad senza rassegnarsi a ricalcare il solito pregiudizio razzista sull’inclinazione delinquenziale, ma dando forma alle proprie energie intellettuali e creative; ovvero si può essere black anche elaborando una proposta musicale che piace ai bianchi.
“No Direction Home” e lo Scorsese “dylaniato” dalla nostalgia
Se Bob Dylan è un universo in espansione, il documentario di Scorsese No Direction Home è una ricostruzione del Big Bang. Chi inizia a raccontarlo è il protagonista, il Dylan musicista più che il Dylan personaggio. Dal racconto personale sulla formazione musicale (a dieci anni suonava già la chitarra e il pianoforte comprati dal padre nella casa d’origine), all’ascolto dei miti della musica folk e blues (Muddy Waters, Gene Vincent, Odetta, Dave van Ronk) fino allo shock dell’incontro musicale con Woody Guthrie, l’alternanza tra immagini di repertorio e il racconto dello stesso Dylan, costruiscono un viaggio (musicale, nella storia del folk) nel viaggio (personale, nella storia di un uomo). Il cambiamento assume sembianze diverse: mentre Allen Ginsberg definisce Dylan come uno sciamano in pubblico, le sue canzoni – viene sottolineato da quasi tutti gli intervistati – scioccano l’ascoltatore per la novità della composizione e dell’interpretazione (il sound, la voce, le parole).
“Toro scatenato” secondo Martin Scorsese
La loquacità di Martin Scorsese è sempre stata inversamente proporzionale alla reticenza di autori come Stanley Kubrick. Non è sorprendente, poiché Scorsese è nato prima come cinefilo e storico del cinema che come cineasta. Non esiste inquadratura che il regista di New York non sappia perfettamente da dove nasce, quale influenza tradisce e quali intenzioni offre. Leggere – tratte da fonti differenti – le spiegazioni tecnico-stilistiche del suo approccio a Toro scatenato è dunque un puro piacere critico. Per esempio: “Ho scelto il bianco e nero perché l’unica scena a colori di un combattimento che mi abbia veramente colpito è il flashback in Un uomo tranquillo di John Ford, quando Wayne guarda a terra e capisce di aver ucciso il suo avversario: non dimenticherò mai lo splendente verde smeraldo dei suoi pantaloncini”.
Speciale “Quei bravi ragazzi” – Parte II
Un film nato sotto una buona stella – al contrario del precedente e travagliatissimo L’ultima tentazione di Cristo, ricordato più per le polemiche suscitate che per i contenuti – la cui vera forza risiede in un cast in stato di grazia. Dalle future guest star de I Soprano – Lorraine Bracco e Micheal Imperioli – al Premio Oscar nella categoria Miglior attore non protagonista per Joe Pesci, al caratterista Paul Sorvino. Attraverso un gioco di specchi il figlio di Little Italy torna alle sue origini per illustrarci le dure leggi della vita di quartiere scandita dalle ricorrenze del calendario importato dalla vecchia Europa.
Speciale “Quei bravi ragazzi” – Parte I
Col figlio di Little Italy l’efferatezza si fa “gioco empatico” che cattura lo spettatore attraverso il montaggio compulsivo e il classicismo rock della colonna sonora. Non è solo quella delle revolverate in pieno viso e della minuziosa macellazione dei cadaveri, ma anche la spietatezza delle relazioni umane nell’imprevedibile calderone mafioso mezzo irlandese e mezzo italiano. Henry, un incontinente Ray Liotta, mastica la vita senza pensare a nulla, interessato solo ad accumulare denaro e ad appartenere ad una famiglia; che sia solo la sua o quella della cosca intera, poco importa. Meglio abbondare. Abbondanza come accumulo chirurgico di scene madri e come godimento estetico che trova l’ebbrezza dello stordimento anche nell’ordinario. Questa è la poderosa macchina-cinema di Scorsese.
“Enamorada” tra rivoluzione e melodramma
Fernández, che in prima persona aveva partecipato alla rivoluzione messicana (1917) ed era stato in prigionia, ambienta Enamorada in quello stesso frangente storico, producendo una pellicola che diverrà il simbolo dell’epoca d’oro del cinema messicano nel mondo. La trama melodrammatica di Enamorada è illustrata dalla fotografia di Gabriel Figueroa, che predilige immagini pittoresche di panorami con una profondità di fuoco riecheggiante quella dell’incompiuto Qué viva Mexico! di Ejzenstejn. Il film si apre con una carrellata dichiaratamente western che galoppa al ritmo della rivoluzione messicana: bombe e rivoluzionari a cavallo scorrono per introdurci nel contesto della storia. Un contesto che con il western ha in comune anche una certa visione romantica della frontiera (qui la città di Cholula) intesa come ideale di libertà e di speranza di riscatto per i più deboli e poveri.
Il tributo all’amore di “Enamorada”
Anche quest’anno al Cinema Ritrovato diamo spazio ai giovani critici in una sezione apposita. Sotto le stelle di Piazza Maggiore non assistiamo solo al cinema ma anche ad uno spettacolo di musica messicana che si conclude con Malaguena Salerosa, per la prima volta suonata nel film Enamorada e poi ripresa da Tarantino in Kill Bill Vol.2. Grazie alla sezione “Ritrovati e Restaurati” del Festival del Cinema Ritrovato, la curiosità degli spettatori viene stimolata e messa in gioco attraverso uno dei film cult del cinema messicano. Enamorada ritorna alla luce grazie al restauro della UCLA Film & Television Archive e al World Cinema Project, con il contributo di Martin Scorsese e Olivia Harrison, presenti alla serata. La figura di Emilio Fernandez, il regista, si erge come quella della statuetta degli Oscar (pare che egli abbia posato come modello per la sua progettazione): un militante della rivoluzione messicana che evase dal carcere e si rifugiò in America, dove scoprì il cinema.
New York Stories: “New York, New York”
Nella lunga trattazione su New York e il cinema che abbiamo proposto ai nostri lettori, appoggiandoci alla retrospettiva in corso, tocca oggi al film eponimo di Martin Scorsese. Dl resto non potevamo che chiudere con il regista più legato (insieme a Woody Allen) alla Grande Mela.
New York Stories: ancora su “Mean Streets”
“Vivendo nella Little Italy di Manhattan potevi scegliere fra diventare gangster o prete. Io scelsi la via religiosa, ma finii per diventare un regista”. Il neoadolescente Martin Scorsese, bloccato tra le mura di casa per via dell’asma, guarda dalla sua finestra il formicaio umano di Little Italy e i goodfellas che ne popolano le strade
New York Stories: “Taxi Driver” e il commento musicale
Nella filmografia sulla Grande Mela, un posto speciale lo occupa ovviamente Martin Scorsese con numerosi suoi film. In Taxi Driver la città è quella del dopo-Vietnam e del picco di criminalità. Ecco come potremmo rileggere il film, con particolare attenzione alla colonna sonora.