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Speciale “Joker – Folie à Deux” – Temerario ma goffo

La strada del musical suggeriva una certa temerarietà nell’intenzione di proseguire un progetto che con il film del 2019 sembrava avere già raggiunto il suo culmine. La virata verso un genere che inevitabilmente avrebbe portato con sé un elemento anomalo apriva a una serie di intriganti possibilità espressive. Eppure la dimensione spettacolare del musical resta perennemente isolata da tutto il resto e le esibizioni canore vengono relegate ad intermezzi avulsi da una struttura che fatica terribilmente nel trovare la spinta propulsiva agognata.

La serialità secondo Thomas Vinterberg

Lo smantellamento della condizione agiata della borghesia europea rimane un punto focale per il cinema di Thomas Vinterberg. Il mutare del medium a disposizione non diminuisce la ferocia del suo attacco, il rimpicciolimento dello schermo cui il prodotto è destinato non impedisce di espandere la portata della sua visione, che si allarga per abbracciare le possibilità narrative consentite dalla narrazione seriale.

“The Brutalist” poderoso e inarrestabile

Al suo terzo lungometraggio da regista, Brady Corbet cementifica la sua concezione del cinema come specchio epicizzante della modernità. Terzo lungometraggio e terza biografia fittizia di una personalità simbolo della propria epoca, la cui vita diventa spunto drammatico per uno squarcio sul mondo l’ha portata all’emersione. Questo è The Brutalist, il lavoro produttivamente più ambizioso del regista e affermazione definitiva della sua autorialità.

“Sanatorium Under The Sign Of The Hourglass” estenuante ma sovversivo

Sanatorium si prefigura come un’opera da esperire più che da decodificare, un “labirinto di porte che sbattono” il cui percorso non trova giustificazione nell’esistenza di una via di fuga, ma nell’angosciante attesa di scoprire cosa si nasconda nell’ombra di ogni suo singolo anfratto. Un’aggressione sensoriale estenuante, a discapito della breve durata di settantasei minuti, ma da accogliere con sincero stupore laddove i rischi della presunzione e dell’autocompiacimento autoriali vengono aggirati da una totale devozione alla materia di cui si compone la propria creazione.

“Beetlejuice Beetlejuice” e lo spiraglio di libertà di Tim Burton

Consapevole che il mondo sia cambiato, così come lo sguardo degli spettatori, Burton cerca il proprio spiraglio di libertà tornando alle origini e rispolverando il proprio amore verso la sgangherata tenerezza che si cela nella mostruosità. Le scenografie distorte dal gusto squisitamente espressionista, le incalzanti musiche del fedelissimo Danny Elfman, il grottesco come chiave per il sovvertimento degli equilibri del mondo e strumento di rivalsa per gli emarginati.

“Furiosa” speciale II – Il ruggito del grande cinema

In Furiosa è presente tutto Mad Max. È presente l’asprezza di una vita che distrugge affetti e valori per corrompere l’innocenza dei più puri e una reazione che acquista la forma di un rabbioso inseguimento. Ma ancora una volta è presente del grandissimo cinema, tumultuoso quanto l’assalto ad una blindocisterna, ma anche intenso quanto lo sguardo di due amanti che decidono di rischiare la vita per inseguire la libertà. C’è quindi veramente tanto di cui essere grati a George Miller, tanto per cui esaltarsi e gioire, ad occhi spalancati, in silenzio, nel buio di una sala.

“Dune – Parte 2” Speciale IV – L’immaginario del blockbuster

La mitologia dell’opera seminale di Herbert rimane pertanto un laboratorio in cui fondere linguaggi poco affini, nel tentativo di sintetizzarli in un ibrido irriconoscibile. Una spedizione alla ricerca del blockbuster dei nuovi anni Venti, tra sensibilità autoriale e gusto del pubblico, tra complessità e accessibilità, seguendo un concetto personale di bellezza al fine di ampliarlo e renderlo qualcosa di condiviso e universalmente apprezzabile.

“Suspiria” di Argento e l’estetica di Tovoli

Noto principalmente per le sue collaborazioni con Michelangelo Antonioni, Tovoli si trovò proprio con Suspiria ad avere a che fare per la prima volta con il genere horror. Ciò rappresentò una sfida non indifferente per un artista che mai aveva preso parte ad una produzione di questo tipo, ma d’altro canto si rivelò anche motivo di fascino per la gamma di possibilità che un genere fantastico poteva offrire dal punto di vista visivo. 

“Ferrari” tra tormento e dinamismo

L’Enzo Ferrari ritratto da Michael Mann è un uomo tormentato dal ricordo degli amici persi in pista anni addietro e soffocato dall’impotenza per non essere riuscito a strappare il figlio Dino ad una morte prematura. Con questo opprimente patrimonio emotivo, in cui gli affetti perduti si accompagnano all’angoscia per un’eredità mancata, Ferrari si scontra con un mondo che non sembra più appartenergli, tra difficoltà economiche che rischiano di vedere il marchio cadere in mani straniere, alla concorrenza entro i confini nazionali che giunge a minacciarne la leadership.

“Inu-Oh” esperienza sensoriale trionfale

Yuasa e il team creativo da lui coordinato riescono nell’impresa di sublimare eventi dolorosamente reali in un’opera esaltante dal punto di vista sensoriale, ma che non manca dell’adeguata sensibilità nel trattare gli aspetti che la richiedono. Inu-Oh si dispiega quindi in un magniloquente viaggio attraverso ferite e folclore di un Paese che, anche al netto della ricchissima filmografia nipponica, forse non era mai giunto fino a noi in una veste al contempo tanto bizzarra quanto profonda ed entusiasmante.

“The Palace” e i mostri di Polanski

Senza commettere l’errore di considerarlo alla stregua un lavoro disimpegnato, il nuovo film di Polanski si dispiega fra i registri della comicità spinta, attingendo dalle divagazioni comiche del passato (Che?, Pirati) e con un occhio alla circoscrizione spaziale del suo più recente cinema di stampo teatrale (Carnage, Venere in Pellicia). In questo rivela la sua presenza tramite la manifesta volontà di non accettare il compromesso, di impadronirsi nuovamente di un genere pesantemente codificato, troppo spesso soffocato dai cliché.

“Hors-saison” dolce ballata sul ritrovarsi

Hors-saison è un film il cui fascino non si esaurisce nelle immagini, ma diviene materia percepibile che si sedimenta con grazia senza arrivare ad appesantire. Tecnicamente rigoroso e calibrato, l’ultimo lavoro di Brizé percorre la via della semplicità per insinuarsi nel profondo e rivelare verità articolate. Uno scorcio malinconico e al contempo premuroso nell’infondere un senso di calore, come un raggio di sole che in pieno inverno riesce ad aprirsi un varco nella coltre di nubi per baciare la terra.

“Io Capitano” e l’umanità dell’eroe ingenuo

Un coming of age concentrato nel tragitto fra il Dakar e le coste della Sicilia, durante il quale il disincanto di un adolescente viene temprato dalla crudeltà degli uomini per trasformarsi rapidamente in senso di responsabilità e propensione al sacrificio. Dopo i successi ottenuti con la sua trasposizione di Pinocchio (2018), Garrone tesse nuovamente le trame di una fiaba in cui il protagonista ingenuo intraprende un viaggio in cui deve confrontarsi con creature mostruose che ricambiano la sua fiducia con l’inganno e puniscono la sua innocenza con il dolore.

“Hokage” e la maturità di Tsukamoto

Giunto al suo quindicesimo lungometraggio, questo monumento della cinematografia nipponica conferma di conservare intatto il proprio spirito inquieto e l’approccio sperimentale alla base della sua sensazionale carriera registica. Ombra di fuoco, si presenta però anche come un’ulteriore prova di come Tsukamoto, in quella che potrebbe essere definita come una nuova fase di maturità, riesca ad arricchire la propria anarchica visione del cinema di elementi nuovi e sorprendenti.

“Adagio” nella città apocalittica

Inscenato con la consueta devozione verso un rigore formale che non estetizza la criminalità, ma ne esalta gli aspetti più brutali, Adagio si afferma come un’opera spietata, uno scorcio apocalittico, crudele e doloroso (ben più greve di quello raffigurato un anno fa da Virzì nel già ben poco consolatorio Siccità) per il quale le uniche soluzioni contemplate sono il martirio o la fuga.  Ma se il mondo circostante non concede vie di scampo, la via per la pace va trovata nella riscoperta del valore della vita, anche quando non si tratta della propria. 

“Ferrari” tra tormento e dinamismo

L’Enzo Ferrari ritratto da Michael Mann è un uomo tormentato dal ricordo degli amici persi in pista anni addietro e soffocato dall’impotenza per non essere riuscito a strappare il figlio Dino ad una morte prematura. Con questo opprimente patrimonio emotivo, in cui gli affetti perduti si accompagnano all’angoscia per un’eredità mancata, Ferrari si scontra con un mondo che non sembra più appartenergli, tra difficoltà economiche che rischiano di vedere il marchio cadere in mani straniere, alla concorrenza entro i confini nazionali che giunge a minacciarne la leadership.

“C’era una volta il West” e la funzione primordiale del cinema

Se il western è considerato da molti come il genere cinematografico per eccellenza è proprio grazie alla sua funzione mitopoietica, alla capacità di saper imbastire racconti epici e generare figure mitologiche. In questo senso l’impronta di Sergio Leone resta un segno preponderante nella storia del cinema. Ogni inquadratura di C’era una volta il West, è un’esaltazione degli elementi di messa in scena, siano essi persone, oggetti o scenografie. 

 

“Cocainorso” e l’irriverenza creativa

Cocainorso è straniante, ma non privo di un certo fascino. Nella sua esuberanza senza freni e nella mancata ricerca di un compromesso tra violenza e comicità, le quali non sono sintetizzate ma sovrapposte, il film riesce nel suo proponimento di intrattenere senza particolare sforzo. E lo fa secondo le proprie regole, esagerando ma senza dare l’impressione di perdere totalmente il controllo, concedendo finanche degli sporadici momenti di tenerezza che suonano da contrappunto ristoratore alla cacofonia dominante.

“Pantafa” nell’incertezza degli archetipi

Sotto un profilo pragmatico Pantafa vorrebbe percorrere il sentiero battuto negli ultimi anni da Paolo Strippoli e Roberto de Feo con le rispettive opere autonome (Piove, 2022 e The Nest, 2019) e con l’ambizioso lavoro congiunto (A Classic Horror Story, 2021), opere che, per quanto non impeccabili, lasciavano trasudare un buon grado di originalità e propensione al rischio. Attributi che si rinvengono a fatica nel secondo lungometraggio di Scaringi, audace negli intenti ma di fatto eccessivamente timoroso e incerto.

“Benedetta” dalla pulsione del piacere

Verhoeven non cerca la sensazione o il clamore, non aggredisce l’iconografia religiosa con la furia blasfema attraverso cui, ad esempio, Ken Russel si faceva beffa dell’ipocrisia cattolica nel suo I diavoli (1971). La rigidità monasteriale, custodita dalla glaciale Suor Felicita di Charlotte Rampling, diviene l’arida culla in cui l’essenza di Benedetta trova il modo di espandersi. Le visioni che agitano le sue notti e turbano le sue giornate sono l’ultima barricata di un costrutto opprimente, destinato ad essere eroso dall’emersione del piacere, quell’Es freudiano latente ma impossibile da contenere.