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“Mona Lisa and the Blood Moon” e il limbo dei linguaggi

Mona Lisa and the Blood Moon non può dirsi un esperimento non riuscito rispetto ai propri intenti, ma ciò che appare frustrante è constatare quanto essi siano modesti rispetto alla caratura cui potrebbero ambire. Amirpour rimane fedele alla propria poetica e prosegue sul sentiero tracciato dai primi lavori, ma purtroppo questo significa rimanere impantanata in quel limbo sospeso tra la volontà di confrontarsi con linguaggi della cultura popolare ben codificati e la presunzione di percepire la propria creazione come superiore ad essi, finendo per servirsene solo in una quantità minima.

“Ultima notte a Soho” concitata ed estrosa

Wright si conferma, al pari forse del solo Craig Zahler, l’autore contemporaneo pervaso dal più limpido sentimento di rispetto e ammirazione verso le strutture collaudate dai maestri del “genere”, nonché uno fra i più genuini epigoni di questi ultimi. Il suo rimane un cinema concitato ed estroso, che però non manca mai della giusta attenzione nello smussare gli aspetti più complessi della costruzione narrativa. Nelle sue mani sembra tutto facile, diretto e piacevole; anche quando, come in questo caso, i contenuti non lo sono affatto. E questa non è solamente maestria, ma anche e specialmente amore verso la propria creazione e chi successivamente ne dovrà poi godere.

“Dune” e il blockbuster. Smisurato, appagante, inconcluso

Dune perde l’alone grezzo e polveroso della sua matrice letteraria, per essere raffigurato con precisione quasi geometrica in un universo dal design moderno ed ambientazioni elegantemente squadrate da un rigore che ammicca all’architettura razionalista. Elementi formali e stilistici, questi, che mirano a rivelare l’impronta di Villeneuve su un mondo che per il resto viene ricreato mantenendo intatti clima ed eventi dell’opera originale e soprattutto punta a riprodurne le forze in gioco senza sminuire le loro proporzioni titaniche. Perché ciò che pare evidente sin dai primi fotogrammi di questo primo tassello di un auspicato franchise fantascientifico è proprio la ricerca di un senso di imponenza.

Il cinema asciutto di Paul Schrader. “Il collezionista di carte” e il germoglio della speranza

Sono sentimenti netti e precisi quelli che Schrader pare scolpire nella roccia di questo suo ennesimo apologo sulle conseguenze estreme del rimorso. Dolore, rabbia, vergogna, compassione e amore sono facce distinte e di un’unica figura tridimensionale che rispecchia i vari volti dell’essere umano inquadrandoli come fossero frammenti distinti e non sovrapponibili. Il collezionista di carte raccoglie questi aspetti e li sviscera progressivamente in modo da restituirli ad opera conclusa in tutta la lor limpidezza. In un clima quasi ipnotico, l’ira viene così percepita come diretta conseguenza di un pentimento non del tutto compito, l’amore come germoglio del seme della speranza.

“Sulla infinitezza” e la finestra sulla vita quotidiana

Ben lungi dal voler elargire un retorico discorso sul senso dell’esistenza, Sulla infinitezza accentua la riflessione sul mistero dell’infinito e sulla fragilità del vivere. Nell’incapacità da parte dell’essere umano di elaborare una risposta adeguata, la soluzione di Andersson è ancora quella di soffermarsi ad apprezzare il valore dell’esserci. Anche in un mondo in cui i colori vengono appiattiti fino a confondersi tra loro e scomparire, dove il peso delle croci portate nei calvari quotidiani tormenta gli individui perseguitandoli anche nel sonno, o in cui addirittura un dittatore che ha sfiorato con le proprie mani il potere assoluto si rende conto di essere una presenza insignificante, l’unica possibilità per un sopravvivenza dignitosa è rendersi conto della meraviglia di esistere.

Il comico dissonante. “Pane e cioccolata” tra farsa e sconfitta

Chi siamo? Questo interrogativo rappresenta la premessa che genera gli eventi di Pane e cioccolata, film del 1974 realizzato dal poco prolifico Franco Brusati che si colloca magnificamente nel filone della commedia all’italiana per la tragica ironia con cui maneggia il tema spigoloso dell’identità nazionale. Il corpo in cui si concretizza questa acuta indagine è quello di Nino Manfredi, uno tra i maggiori esponenti dell’italianità e qui chiamato invece a ricoprire il ruolo di un emigrato ciociaro in Svizzera mosso da un sentimento tutt’altro che patriottico. Una scrittura (a firma dello stesso Brusati, affiancato dalla drammaturga Iaia Fiastri e da Manfredi) attenta a coniugare il surrealismo delle gag ad una pertinente ricostruzione dei costumi e del contesto sociale.

Prima le persone, poi il film. Intervista a Fabio Donatini

Presentato in anteprima allo scorso Torino Film Festival, San Donato Beach è il terzo lungometraggio del regista Fabio Donatini. Un’opera strettamente legata all’indole emotiva del suo autore, in grado certamente di esprimere i propri contenuti in piena autonomia, ma che acquista senz’altro un valore aggiunto se irrorata dall’esperienza personale di chi lo ha concepito e creato. Ecco quindi la testimonianza del regista riguardo alla sua opera ed alle necessità e gli stimoli che lo hanno spinto alla realizzazione di questo lavoro.

“Amore e fortuna”, i piccoli drammi individuali di Becker

Amore e fortuna è un esempio di leggerezza espositiva e tragiche dissonanze nel carattere di personaggi straordinariamente ordinari: dialoghi verbosi e frizzanti, toni sopra le righe ma mitigati da una velata malinconia di fondo sono elementi del film di Becker sopravvissuti all’erosione del tempo e ancora centrali ad oltre settant’anni di distanza. Nel caso in questione tutto ruota attorno alle goffe peripezie di una giovane coppia nella Parigi del secondo dopoguerra, parzialmente soddisfatta della propria vita. Lo scossone in questa monotona ma non disprezzabile routine arriva sotto forma di biglietto vincente della lotteria.

“Les Enfants du Paradis” opera cinematografica totalizzante

Un kolossal da oltre centonovanta minuti che, diviso in due parti, abbraccia un periodo di diversi anni e si muove con disinvoltura tra una varietà di generi che spaziano dal melodramma alla commedia, arrivando finanche a contaminarsi con delle sporadiche incursioni nel thriller. Una natura multiforme che riflette le sfaccettature dei protagonisti, figure archetipiche cariche di valori contrastanti e in perenno conflitto. L’eroe romantico che si lancia al disperato inseguimento dell’amata è costretto a soccombere al muro di folla festante, un carnevale di volti deformati, ira, disperazione e giubilo; stati d’animo parossistici che soffocano il fioco grido di un amore interrotto. Come a sottolineare che le passioni più intense sono anche quelle meno rumorose.

Antropologia di “San Donato Beach”

San Donato Beach è uno spaccato realistico di un contesto borderline, ma anche una sublimazione dello stesso tramite una ricercata distorsione dell’ambiente cittadino. San Donato non è quindi solo il luogo in cui collocare geograficamente gli incontri mostrati nel film, ma diviene una componente fondamentale per la definizione del tono generale dell’opera. Il quartiere genera un’atmosfera che riesce ad alleggerirsi ed incupirsi a seconda dei contenuti su cui ci si sta soffermando. L’ambiente urbano diviene quindi un ulteriore personaggio di questo documentario scaturito non tanto da una razionale volontà di indagine antropologica, quanto più da una recondita esigenza di contatto umano.

“Pandora” e lo splendore cromatico del melodramma

Negli anni Cinquanta l’industria hollywoodiana esonda dalla propria zona di comfort e si espande con decisione verso i territori del fantastico. Pandora figura tra i titoli che, agli albori del decennio, impostano la rotta verso generi segnati da mondi immaginari e figure ammantate di mistero, affermandosi però come un esperimento ancora parte di un sistema in trasformazione, più che un manifesto del nuovo corso della cinematografia d’oltreoceano. Diretto e prodotto da Albert Lewin, il film è una rivisitazione in chiave contemporanea della leggenda nordeuropea dell’Olandese Volante, diluita in un melodramma canonica in cui la protagonista interpretata da Ava Gardner viene travolta da una burrasca di impulsi amorosi.

“Cane di paglia” o dell’ambiguità nel cinema

Cane di paglia è un ritratto umano aggressivo e spietato, che poteva essere realizzato solamente da un autore che utilizza l’ambiguità come materia prima. La stessa foga irrefrenabile che ha ridisegnato il western con tinte accese e quanto mai dissacranti; la mano che ha calcato le aspre pieghe del cinema bellico, insinuandosi tra le fila reiette dell’esercito tedesco rinvenendovi un’inedita umanità; o ancora la capacità di delineare degli eroi action fuorilegge tanto rudi quanto intimamente fedeli alla propria etica. Per Sam Peckinpah verità e giustizia sono principi delicati che vanno scandagliati attraverso un cinema potente, tanto cristallino nella sua giocosa patina quanto imperscrutabile nelle implicazioni tematiche.

“Nomadland” tra ombra della fine e tenue speranza

Per la precisione e la spontaneità, il Leone d’Oro Nomadland è da considerarsi l’opera della maturità per Chloé Zhao, che pur mantenendo la sua impronta marcatamente estetizzante, riesce in questa occasione a smarcarsi da una scolastica concezione del dramma. Sprazzi di realtà in presa diretta, che sfociano talvolta in un atteggiamento quasi documentaristico, si alternano alla maestosa imponenza di un’America ampia e spoglia come raramente la si è potuta ammirare nelle produzioni d’oltreoceano. I primi piani della protagonista fanno da contrappunto a campi lunghi in cui il suo corpo viene ridotto ad una minuscola sagoma sovrastata dalle tinte crepuscolari degli immensi paesaggi. E malgrado l’ombra di una fine inevitabile incomba minacciosa su ogni sequenza, Nomadland riesce a conservare una sfumatura di tenue speranza.

Il conflitto narrativo di “Hopper/Welles”

Un dialogo tra due figure emblematiche nell’industria cinematografica del proprio tempo, alla stregua dei più formali confronti tra Francois Truffaut ed Alfred Hitchcock o la più recente intervista di Olivier Assayas ad Ingmar Berman, ma con una fondamentale differenza: in questo caso non è il giovane baldanzoso che interroga il Maestro, bensì il navigato autore che dall’alto della sua levatura culturale trova un perverso piacere a problematizzare le affermazioni dell’esordiente. Il ritratto che traspare è quello di un Orson Welles disilluso, pesantemente inaridito dalle diatribe produttive, contrapposto all’ingenua spensieratezza di Hopper, stella in ascesa che ancora conserva l’illusione di poter cambiare il mondo con il potere della propria arte.

“Le sorelle Macaluso” e la potenza della sincerità

Qual è il tema cardine di questa amara sinfonia di dramma e ilarità? L’inesorabilità dell’incedere cronologico, che non si arresta di fronte alle difficoltà umane, ai rimpianti insanabili e all’azione opprimente della memoria che grida imperterrita il proprio dolore senza trovare pace. Mirato alla rappresentazione di questo fenomeno Le sorelle Macaluso è un film dolorosamente spietato nella sua volontà di non voler concedere alcun appiglio consolatorio. E a chi considera riprovevole il fatto che le protagoniste vengano mostrate solamente nei loro momenti di massima vulnerabilità, il racconto pare voler ribattere con tono aggressivo che la rappresentazione enfatica e reiterata del dolore può trascendere il facile manierismo ed aspirare, cose in questo caso, ad essere un’onesta e puntuale riflessione su esperienze che troppo spesso tendono ad essere represse.

“The World to Come” a Venezia 2020

The World to Come di Mona Fastvold esordisce con una solenne voce fuori campo volta a descrivere i tormenti di una donna che vive con il marito in una fattoria nel Nordest degli Stati Uniti di fine Ottocento. Fin da queste primissime battute appare chiara la discrepanza tra il candido ma apatico lirismo della narrazione verbale ed il rustico calore della vivissima messa in scena. Le parole della protagonista Abigail (Katherine Waterston) scandiscono il passare delle stagioni e l’evolversi della sua condizione personale, dalla dolorosa monotonia iniziale alla dolce rifioritura favorita dall’affettuoso rapporto instaurato con la nuova arrivata Tally (Vanessa Kirby alla sua seconda notevole apparizione in questo festival), anch’essa insoddisfatta moglie di un austero fattore a cui non riesce a dare un erede.  

“Pieces of a Woman” a Venezia 2020

In un’edizione del festival cinematografico più antico del mondo che ancora una volta si mostra particolarmente interessato alla rappresentazione di figure femminili (privilegiando quest’anno anche lo sguardo autoriale delle donne, con otto registe inserite nella selezione principale), il cineasta ungherese Kornél Mundruczó si inserisce nell’ampio coro di voci in una maniera non del tutto dissonante, ma di certo dirompente nella sua carica espressiva. Il dolore di una giovane madre che si trova a dover affrontare il più lacerante dei lutti, trovandosi ad assistere inerme alla tragedia della vita che abbandona la figlia appena data al mondo, si trasforma nel materiale narrativo su cui impostare un lento e graduale percorso di autodeterminazione.

Vampate di inattesa crudeltà. Il cinema di S. Craig Zahler

Per Zahler ogni fotogramma è un raro bene dal valore inestimabile, un dono da non sperperare nell’enunciazione verbosa di ciò che può essere dedotto semplicemente scrutando le figure che si muovono sullo schermo. Parliamo di un cinema che individua il proprio fulcro narrativo nella mostrazione più che nella spiegazione. Una drammaturgia che descrive i personaggi attraverso null’altro che il loro modo di agire e reagire alle continue collisioni con l’esterno. Un’inclinazione che porta le opere di questo regista ad essere sempre orientate ai generi, ed alla loro continua combinazione. Così un western dalla struttura classicheggiante come il suo film d’esordio, viene investito dai connotati gore che hanno segnato l’horror di inizio millennio.

Polanski e la trilogia dell’appartamento

Da luogo intimo e confortevole, scudo nei confronti dei pericoli del mondo esterno, a claustrofobico scrigno costrittivo e amplificatore di reconditi disagi. Le molteplici forme assumibili dall’ambiente domestico riflettono gli stati emotivi degli individui che in esso risiedono. Aspetto il cui potenziale suggestivo in campo cinematografico era ben noto già a pionieri dell’orrore come Robert Wiene o Paul Leni. Come un labirinto di specchi deformanti, le mura di casa possono rendersi agenti distorsivi della percezione umana. Una delle più lucide traslazioni di questo fenomeno in racconto audiovisivo giunge dalla filmografia di Roman Polanski ed in particolare da quel trittico irrinunciabile che, a cavallo tra anni Sessanta e Settanta, ha saputo scandagliare il terrore annidato nelle stanze di appartamenti immersi in contesti urbani.

Gli stimoli sensoriali di “1917”

Il cinema di guerra nasce come sinonimo di montaggio frenetico ed alternanza di punti di vista ad altezza d’uomo, rapportati in modo da fornire una visione esaustiva dell’azione. È su questa area che il regista britannico sceglie di intervenire con il suo ultimo lavoro, riproponendo la Prima Guerra Mondiale attraverso uno spunto inedito: non solamente immerso nel mare delle trincee, ma anche in perfetta continuità temporale con gli avvenimenti che si rincorrono sullo schermo. La tecnica iperrealistica del piano sequenza, esasperata in due atti distinti tramite celati interventi di montaggio fino a sorreggere il film per la sua intera durata, costituisce già nelle premesse l’elemento più ardito di un’operazione produttivamente ambiziosa.