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“Padre Pio” emotivo più che biografico

Scritto a quattro mani con il bravissimo Maurizio Braucci, Padre Pio è una storia che procede su due binari paralleli destinati a non incontrarsi mai se non su un territorio storico-geografico comune: da un lato la passione del santo e dall’altra la cronistoria del massacro di San Giovanni Rotondo del 14 ottobre 1920. Di fatto, il film è un alternarsi tra lo spaccato politico-sociale del luogo e i pensieri e i conflitti spirituali di Padre Pio, qui in un ritratto emotivo, più che biografico. 

“Totem” e l’esistenza che pulsa

Lila Avilés riduce lo spazio filmico per farne la propria casa interiore, lo specchio uguale e difforme di un proprio interno topologico affettivo. E lo fa ponendosi a distanza ravvicinata dai soggetti coinvolti, scontornando i desideri celati sotto gli obblighi di un protocollo sacro e pagano. Sono frustrazioni e bisogni nati per essere disattesi dall’ineluttabilità degli eventi, ma che svelano tutte le umane contraddizioni di questa sospensione schiacciante.

“Piccolo Buddha” e l’innocenza del cambiamento

Se Piccolo Buddha è un film dichiaratamente didattico, è anche il contraltare dell’approccio hollywoodiano verso le altre culture. Nel suo essere manifestamente ingenua, nella sua rinuncia a un certo tipo di sottotesto, la favola di Bertolucci è una scelta di campo. Più pasoliniana, sotto alcuni aspetti (anche estetici: molte location sono le stesse de Il fiore delle Mille e una notte), cerca nella consulenza di Dzongsar Jamyang Khyentse Rinpoché – il vero Lama Norbu, che dopo l’incontro con Bertolucci diventerà il primissimo regista buthanese – un’autenticità che smascheri i limiti di uno sguardo dualista.

Un ricordo cinematografico di Shane MacGowan

Come approcciarsi a Shane MacGowan? Come tentare di raccontare la parabola celebrativa e distruttiva di chi si è fatto al contempo icona, stereotipo, tradizione e ribellione? Figlio del repubblicanesimo e della diaspora irlandese, Shane è una scheggia impazzita che trova a Londra, nel bel mezzo della rivoluzione musical-popolare del 1976, il motore poetico di una rabbia antica. Impossibile da moderare, anche sfruttando gli stratagemmi del mezzo filmico. Qualcuno l’ha già detto: “Shane’s gonna Shane.” E Julien Temple lo sa, lo sa molto bene.

“The Wicker Man” 50 anni fa

The Wicker Man è un film senza tempo che ha il doppio della rilevanza nell’epoca della visibilità totale. Nessun altro film a basso budget ha saputo costruire la tensione per sottrazione come l’opera di Hardy e Shaffer, o interpretare le contraddizioni sociali del periodo in una dimensione sospesa tra sogno e paranoia, rendendolo antico e moderno insieme. E se le circostanze non sono favorevoli, il resto è puro allineamento cosmico in cui le scarse risorse a disposizione riescono addirittura ad esaltare l’anima dell’operazione.

“Lynch/Oz” e la moltitudine di sguardi

Lynch/Oz, una vera e propria esegesi critica di Alexandre O. Philippe. Ambasciatore del film-saggio (dalla “scena della doccia” in Psycho al rapporto contorto che intercorre tra George Lucas e i suoi fan), Philippe emerge dall’ultima fatica sulla Monument Valley e il suo ruolo nella storia del cinema per un documentario decisamente ambizioso. Sì, perché come sempre accade con i lavori “cinemaniaci” di Philippe, Lynch/Oz finisce per sconfinare e diventare un irresistibile compendio sull’eredità morale ed estetica de Il Mago di Oz nella cinematografia contemporanea.

“La chiamata dal cielo” di Kim Ki-duk oltre la morte

Realtà, fantasia e tutta la tensione che persiste quando le due dimensioni si sovrappongono: a ben vedere, la trama potrebbe essere considerata la summa di gran parte della poetica di Kim Ki-duk. Girato nel 2019 in Kirghizistan e portato a termine dopo la prematura scomparsa del regista per complicazioni da COVID-19, finisce per rappresentarne il testamento. Ma se il girato è tutta farina del suo sacco, le scelte legate alla finalizzazione dell’opera e alla sua post-produzione sono state affidate completamente agli amici e colleghi.

Speciale “The Whale” II – Tra solitudini e moltitudini

The Whale ci racconta così tante emozioni, talmente prossime alle nostre vite, che qualcuno potrebbe pensare si tratti di un tranello, di un’abile manipolazione che indirizzi agilmente questo film verso un premio, un riconoscimento. Ma non c’è niente di facile e immediato in The Whale, un gioiello di scrittura piccolo come gli spazi che presenta e grande come il protagonista, anzi, i personaggi tutti. Una storia complessa fatta di solitudini e moltitudini, costrette a far stare le loro strabordanti emozioni in confini autoinflitti e pronte a esplodere in una tensione oscura che nasconde una speranza irriducibile.

“The Son” e la responsabilità dello spettatore

La forza di The Son sta nel rovesciare le nostre radicatissime convinzioni sulla depressione, smascherandone i luoghi comuni. Zeller sceglie di pre-disporre il racconto filmico in tappe più canoniche rispetto all’esordio proprio per ricordarci che i disturbi mentali non possono costituire temi banali e semplificabili, mai. Confinando le azioni quasi esclusivamente in appartamento e senza virtuosismi di sorta, si può dire che il regista si distacchi ben poco dalla matrice teatrale nel tentativo di raccontare una moltitudine di complesse dinamiche intersoggettive.

“Le vele scarlatte” nel cuore magico della semplicità

Con l’ausilio del fedelissimo Maurizio Braucci e di Maud Ameline, Pietro Marcello scrive e dirige il suo primo film francese affidandosi alla forza delle suggestioni, utilizzando l’ambiente, le luci, i colori e i suoni come veri e propri attori. Un’opera che trova nella sua semplicità la vera magia, svelando progressivamente un inedito punto di vista femminile. Di fatto, Le vele scarlatte è solo all’apparenza limpido e immediato, ma nasconde sotto la delicatezza delle immagini un sistema simbolico profondo.

“EO” speciale II – Lezione sulla natura e sulle immagini

Cos’è EO? È una favola animalista dai tratti magici che sa trasformarsi in horror e in dramma ferale, riuscendo persino a contenere i segni grotteschi (e credibili) della commedia. Ma è soprattutto il lavoro di un maestro invitato a sfidare i limiti dello sguardo, compreso il proprio. Senza virtuosismi né magniloquenze di sorta, ma con l’approccio silenzioso di chi ha voluto creare un meraviglioso equivoco che urla “cinema!” da ogni punto di vista. Come il personaggio di Crossley ne L’australiano (The Shout, 1978) è alla ricerca di rare e minacciose frequenze, Skolimowski insegue ossessivamente un’inquadratura che possa svelarsi finalmente libera e indipendente.

“Chiara” piena d’amore con tutti i suoi difetti

Non sarà un film perfetto, ma è indubbio che Chiara sia un film pieno d’amore. Amore per la storia che racconta, amore per la protagonista e per le sue motivazioni, amore per la terra e per il tempo in cui si svolge. Amore per il grande cinema italiano di costume e religioso (Rossellini e Pasolini su tutti, “oltraggiati” e omaggiati), amore per tutto ciò che possa recidere i legami con quello stesso cinema. Amore per tutto ciò che non è stato raccontato. Amore per le potenzialità del cinema. Un amore che finisce per sovrastare il film stesso, ingessato in una ricercata naturalezza, ma che si fa portavoce di una adorabile fragilità.

“Blonde” speciale. L’epopea perversa di sogni infranti

Blonde sembra quindi indeciso sulla strada da intraprendere, in bilico tra il percorso orrorifico (già magistralmente battuto da Larraín con Spencer) e quello squisitamente narrativo. La scelta di privilegiare il punto di vista di Marilyn non raggiunge le potenzialità di una provocazione “alt(r)a”, ma si blocca spesso, tragicamente, in superficie. I momenti più riusciti sono forse quelli più tetri e grotteschi, quelli in cui lo sguardo di Marilyn e dello spettatore si incrociano, finendo anche per coincidere.

Il bilancio finale di Venezia 79

Mai come in questa 79esima edizione della Mostra del cinema di Venezia, un fil rouge sgargiante ha attraversato ogni film in concorso (e non solo). Perché è indubbio, nel bene e nel male, che si sia riscontrata una coerenza di temi mai così salda come in questa selezione, qualcosa che lega un film all’altro in un gioco di incastri sorprendente, a tratti inquietante. E non si tratta di una sensazione suggerita, forzata, a tratti percettibile: è qualcosa di incredibilmente nitido che fa di un film la controparte dell’altro, in un botta e risposta ideale.

“The Son” e la responsabilità dello spettatore

La forza di The Son sta proprio in questo: rovesciare le nostre radicatissime convinzioni sulla depressione, smascherandone i luoghi comuni. Zeller sceglie di pre-disporre il racconto filmico in tappe più canoniche rispetto all’esordio proprio per ricordarci che i disturbi mentali non possono costituire temi banali e semplificabili, mai. Confinando le azioni quasi esclusivamente in appartamento e senza virtuosismi di sorta, si può dire che il regista si distacchi ben poco dalla matrice teatrale nel tentativo di raccontare una moltitudine di complesse dinamiche intersoggettive.

“The Whale” tra solitudini e moltitudini

The Whale ci racconta così tante emozioni, talmente prossime alle nostre vite, che qualcuno potrebbe pensare si tratti di un tranello, di un’abile manipolazione che indirizzi agilmente questo film verso un premio, un riconoscimento. Ma non c’è niente di facile e immediato in The Whale, un gioiello di scrittura piccolo come gli spazi che presenta e grande come il protagonista, anzi, i personaggi tutti. Una storia complessa fatta di solitudini e moltitudini, costrette a far stare le loro strabordanti emozioni in confini autoinflitti e pronte a esplodere in una tensione oscura che nasconde una speranza irriducibile.

“Pearl” come viaggio umorale nell’horror piscologico

Nell’attuale revival retró dell’horror, Ti West si distingue per la seconda volta nello stesso anno, e con maggiore incisività, per un film che sa essere al contempo profondo e leggero, estremamente serio e divertente, misurato ed eccessivo. In un’edizione che fa della paura della morte, dell’espiazione e del senso di colpa i temi caldi della selezione, Pearl è la nota dissonante e scanzonata di Venezia 79, capace di omaggiare e al contempo capovolgere e sublimare i ruoli femminili nella storia dell’horror psicologico. 

Uno sguardo sul cinema jugoslavo

Il cinema degli anni ’50 e ’60 in quello che da Regno dei Serbi, Croati e Sloveni si trasformò attraverso grandi tumulti sociali in Repubblica Socialista Federale fu un cinema critico, feroce, e allo stesso tempo capace di grandi magie. Un crocevia di geografie e di sguardi in cui le differenze e gli scontri riuscivano talvolta miracolosamente a esaurirsi nelle dinamiche di produzione artistica, fin dagli esordi dei registi che posero le fondamenta della cosiddetta Onda Nera (Crni Val). Un cinema che si dimostrò unico proprio per quella capacità trasversale di guardarsi indietro e guardarsi dentro. Sono opere in bilico tra passato, presente e modernismo, attente al proprio contesto in costante dialogo con i mutamenti esterni.

Un multiverso transmediale firmato Sam Raimi

Doctor Strange nel multiverso della follia non può essere visto soltanto come il sequel di Doctor Strange (Scott Derrickson, 2016), ma come episodio dark-fantasy di una continuity tentacolare, conseguenza diretta delle tre “fasi” del Marvel Cinematic Universe (ventitré film) e parte integrante della cosiddetta “fase quattro”: cinque film già usciti, altri sei programmati, con serie e miniserie annesse. Numeri da capogiro che rischiano di scoraggiare chiunque avesse voglia di varcare la soglia dell’universo Marvel Studios da neofita, ma che non faticano a fidelizzare praticamente nessuno.

“The Batman” smisurato, lugubre e solenne

The Batman non è una “fiaba oscura” né “il Batman definitivo”, ma un ibrido che si assesta con timida sicurezza tra il cinecomic cosiddetto e la New (New-New) Hollywood. Una liturgia noir che suggerisce l’hard boiled con meno compassione e realismo del Joker di Todd Phillips, senza dimenticare le frustrazioni e le nevrosi del contemporaneo. E sulle variazioni dell’Ave Maria di Schubert, diventa ancora più appropriato perdersi nell’altro tema del film, Something in the Way. Sono i Nirvana più funerei che Reeves sceglie come manifesto del suo Batman: familiare, solenne, ma libero di de-costruire un’intera mitologia.