Parla Joseph Losey
“Il film è stato piacevole da fare: tutti quanti si volevano bene. Quando fu finito, i produttori cominciarono ad avere delle preoccupazioni. Dicevano: ‘Sa, non è commerciale, non andrà bene’, e naturalmente il film è andato bene. E anzi per me fu l’inizio di una nuova carriera e di una nuova vita. Fu anche l’inizio di una carriera per Sarah Miles e per James Fox, la prima volta in cui Richard MacDonald ottenne un vero riconoscimento, e una svolta nella carriera di Dirk Bogarde, senza parlare del riconoscimento del direttore della fotografia, Douglas Slocombe.
“Il servo” di Joseph Losey e la critica
In occasione dell’uscita in prima visione del restauro di Il servo di Joseph Losey – per il progetto Cinema Ritrovato al cinema – offriamo una carrellata critica internazionale. A cominciare dal maestro Sadoul che scrisse: “Le influenze della drammaturgia brechtiana, che Losey tenta d’applicare allo schermo raggiungendo la “distanziazione” per vie diverse, vi si fondono col gusto particolare di Losey per le atmosfere decadenti, narrate criticamente, e per i sottili e tortuosi (talvolta morbosi, ma mai fini a se stessi) scavi psicologici”.
Rumble in the Jungle. “Quando eravamo re” e la storia del film
Tutti i frammenti del mostrato tendono, o fingono di tendere, al climax della vittoria di Ali (vittoria così peculiarmente cinematografica, nel suo apparente naufragio verso la disfatta dell’eroe poi ribaltato con il colpo d’ala a sorpresa, da essere poi copiata in uno dei film della serie di Rocky). Mentre, probabilmente, al centro del racconto c’è la descrizione del regime segnico, della trama simbolica che alla sfida fa da cornice. Ciò che conta non è l’evento-sfida, ma la genesi della sfida (che cosa è l’infortunio di Foreman che spinge gli organizzatori a rinviare l’incontro, se non un topos cinematografico, mirato alla crescita esponenziale dell’attesa e della suspense?).
Le parole di Pasolini
Nelle celebrazioni del centenario pasoliniano tutti stiamo spendendo tanti discorsi per ricordare come si deve l’autore e la sua grandezza. Ma talvolta è ancora più saggio ascoltare le sue parole, dichiarazioni, interviste, da considerarsi un’opera nell’opera. Per esempio, a proposito del Vangelo, quando spiega: “La mia lettura del Vangelo non poteva che essere la lettura di un marxista, ma contemporaneamente serpeggiava in me il fascino dell’irrazionale, del divino, che domina tutto il Vangelo. Io come marxista non posso spiegarlo e non può spiegarlo nemmeno il marxismo”.
Angurie, caffelatte e abbronzature. “The Watermelon Man” e la decostruzione degli stereotipi razziali
La critica meta-cinematografica del film alla rappresentazione razziale è tanto politica e radicale quanto quella al privilegio, al razzismo bianco e alle condizioni sociali degli Afro-Americani. Significativamente, le sequenze iniziali di presentazione della perfetta famiglia di Jeff, dove le convenzioni di riferimento sono quelle della sitcom americana, sono alternate a cinegiornali sugli scontri razziali degli anni ’70. Spesso considerato come un mero preludio alla vera carriera di Van Peebles da autore indipendente, The Watermelon Man mostra già un regista che usa le risorse economiche mainstream per girare un film personale, il cui protagonista non diventa l’ennesimo tragico mulatto che suscita la pietà di progressisti bianchi ma uno dei primi militanti di celluloide del Black Power.
“Quando eravamo re” e le parole oltre le immagini
Frutto di una gestazione di circa vent’anni e a ventiquattro dalla sua uscita in sala, Quando eravamo re si dimostra ancora oggi uno dei migliori esempi di documentario sportivo della storia del cinema, testimonianza dell’epico match pugilistico valido per il titolo mondiale di pesi massimi tra Muhammad Alì e George Foreman, il primo tra due afroamericani tenutosi in Africa, nel 1974. La manifestazione assunse da subito un’enorme portata: negli anni del black pride, due atleti neri di prima categoria si contendono il più alto riconoscimento della loro disciplina nella terra dei loro avi, da cui secoli prima partirono le prime navi cariche di schiavi dirette verso l’America.
Il cinema italiano in vetta al K2. Le riprese di Mario Fantin
Nel 1954 il CAI patrocina una spedizione che riuscirà, per la prima volta, il 31 luglio, a raggiungere il K2 nella subcatena del Karakorum. Fu impresa difficilissima perché, oltre a scalare gli 8608 metri della seconda vetta più alta del mondo, per raggiungere il campo base bisognava compiere a piedi una marcia di avvicinamento di 240 chilometri, attraversando fiumi su zattere, ponti di vimini sospesi, e superare due ghiacciai con seicento portatori. Al seguito della spedizione era l’operatore e regista Mario Fantin, già conosciuto per le sue imprese fotografiche e cinematografiche in ambito alpinistico. Le riprese furono realizzate utilizzando varie cineprese 16mm, un cavalletto per dare stabilità alle immagini e pellicola 16mm Kodachrome.
“Comizi d’amore” e Pasolini poeta viaggiatore
Con Comizi d’amore l’Italia incappa “nell’intelaiatura PPP”: politica, pellicola, poesia. Spinto a tentare le forme espressive con una voracità capace di regnare anche sul favoloso mondo della celluloide, il poeta “corsaro” si ispira al documentario dell’antropologo Jean Rouch e del sociologo Edgar Morin, Chronique d’un été. Un’indagine, la loro, sulla concezione della felicità nei quotidiani parigini, un modo quello di Pasolini per spiare, invece, il cupo conformismo della borghesia italiana che si manifesta con riposte vuote: l’ignoranza per paura. Di questo, egli sa. Ha prove e indizi.
“Vampyr” e il lavoro sul set
Viaggio tra testimonianze e ricostruzioni sul set di Vampyr: “Ci faceva recitare in maniera del tutto naturale. Ci faceva sentire che la storia misteriosa che recitavamo era vera. Ciò richiedeva molte riprese per ogni scena, e ci furono diverse ripetizioni. Quando c’era del dialogo, ogni scena veniva girata tre volte, per la versione francese, inglese e tedesca. Veniva girata muta, e noi pronunciavamo tutte le parole. Il sonoro fu aggiunto più tardi presso gli studi UFA di Berlino, che all’epoca avevano la migliore strumentazione sonora. Dreyer era un uomo molto gentile, ma quando dirigeva i suoi attori diventava molto duro”. (Nicolas de Gunzburg (intervista), “Film Culture”, n. 32, 1964)
“Vampyr” di Dreyer o la verità sullo strano caso di Mister Gray
Dreyer costruisce la storia con una sorta di tableaux vivants, situazioni paratattiche e giustapposte dove la consecutio logica e temporale è soltanto accennata, per dare vita a sensazioni eteree, funeree e sepolcrali – in un certo senso, vedere Vampyr è un po’ come leggere una macabra poesia, dove i rapporti di causa/effetto non seguono la logica comune. Certo, un andamento narrativo c’è, ma la diegesi sembra affidata soprattutto al fluire degli incubi, al magma dell’inconscio, a un precipitare da un mondo all’altro proprio come accade nei sogni, il che fornisce al film un coté altamente evocativo e affascinante.
“Vampyr” e la critica
Uno dei grandi film della storia del cinema, una delle avventure più enigmatiche e coinvolgenti che gli occhi degli spettatori abbiano mai incontrato, e uno dei restauri più preziosi realizzati dalla Cineteca di Bologna. Realizzato da Dreyer nel 1931, all’indomani del capolavoro La passione di Giovanna d’Arco e dell’avvento del sonoro, liberamente ispirato ad alcuni racconti di Sheridan Le Fanu, Vampyr è un film horror, un film fantastico, un film di nebbie, di luminescenze, di poche parole, di terrificanti rumori. Il ritorno del capolavoro in prima visione – grazie al progetto Cinema Ritrovato al cinema – permette di fare il punto sulla fortuna critica del film.
La parte inconscia dello spettatore e del cinema. Il “Mulholland Drive” del linguaggio
Probabilmente parte del fascino magnetico di questo film risiede proprio nella sua capacità di entrare in contatto con la parte più inconscia del nostro essere spettatore, spiazzandoci e al tempo stesso facendoci sentire intimamente compresi, anche grazie all’indulgenza, in numerosi momenti del film, alla suspense e alla tensione erotica, elementi che compiacciono e attivano lo sguardo dello spettatore. Un gioco tra attrazione e spavento gestito con mirabile equilibrio, resa immortale e rilevante per la storia del cinema anche in virtù dell’intima riflessione che compie sul media e sull’industria del cinema.
“Mulholland Drive” e la critica
In occasione della distribuzione di Mulholland Drive (restaurato in 4K), a cura della Cineteca di Bologna, forniamo un’antologia critica – per un film che ha poi negli anni generato ogni tipo di attenzione analitica e interpretativa. Del resto, come ha scritto l’indimenticato Roger Ebert, “È un sogno surrealista in forma di noir hollywoodiano, e meno capiamo più non riusciamo a smettere di guardarlo. Racconta la storia di… beh, non si può concludere questa frase”. E l’invito di David Lynch – “silencio”, fatto pronunciare al più enigmatico dei personaggi – non ha mai voluto significare annullamento del senso, ma solo capacità di ascolto.
“Mulholland Drive” come summa dell’universo di David Lynch
Per utilizzare un celebre aforisma, Mulholland Drive (2001) è un indovinello avvolto in un mistero all’interno di un enigma. Il che, va detto, si può applicare a ogni opera di David Lynch – e poco importa che si tratti di un lungometraggio, di una serie TV o di un corto – ma è una definizione che calza in modo particolare per alcuni dei suoi più celebri film, dove l’universo onirico, visionario e psichedelico deflagra con tutta la forza possibile. Mulholland Drive, che è finora il suo penultimo film e l’ultimo girato in pellicola, è una summa, una sorta di compendio dell’universo lynchiano, in grado di raggiungere un apollineo equilibrio tra il carattere anti-narrativo di film estremi come Eraserhead e Inland Empire e il racconto più classico che troviamo in noir quali Velluto blu e Cuore selvaggio.
La genesi del mito. “Fino all’ultimo respiro” tra soggetto e spontaneismo cinefilo
Ecco come ci ricorda la genesi del film Alberto Farassino: ” ‘Un mese dopo l’uscita di I quattrocento colpi Godard mi ha chiesto di lasciargli la sceneggiatura di À bout de souffle per farla leggere a Georges de Beauregard. Era una storia che avevo scritto qualche anno prima’. È François Truffaut che ricorda come sia nato il primo lungometraggio di Godard, del quale risulta autore del soggetto mentre un altro amico, Chabrol, vi è accreditato come “consigliere tecnico”. Ma certamente i due nomi già affermati appaiono nei titoli di testa più come amichevole sostegno, e affermazione di una solidarietà di gruppo, che per il contributo realmente prestato. À bout de souffle non solo è, da cima a fondo, di Godard, ma è Godard”.
“Fino all’ultimo respiro” e la critica
L’uscita in sala della versione restaurata di Fino all’ultimo respiro ci consente di proporre – come di consueto nel caso del progetto Cinema Ritrovato al Cinema – un’antologia critica d’epoca e fino ai nostri anni. Affascinante, tra gli altri, l’approccio di Jean-Claude Izzo, grande scrittore di noir, che ha scritto: “Quando ha la meglio sulla poesia la realtà si traduce così: in variazioni sulla morte. Insomma, fino all’ultimo respiro. Non rivedere questo film (per la seconda o la centesima volta) sarebbe, come è stato scritto allora, privarsi di emozioni tra le più belle e forti che il cinema abbia proposto in questi ultimi tempi”.
Dichiarazione d’amore al cinema. “Effetto notte” rivisto oggi
Effetto notte è un’opera di estrema vitalità, e probabilmente Truffaut realizzerebbe questo film anche oggi, in un cinema pervaso dalle tecnologie digitali e immerso in un mercato globalizzato. Questo perché il film è una dichiarazione d’amore per la settima arte oltre ogni ostacolo e narra di una passione che non si arresta mai, neanche mentre si dorme. Sarebbe una magia vedere lo stesso trasporto e sincerità con cui il regista ci ha immerso nel cinema del suo tempo in un film che parli dell’industria di oggi.
“Effetto notte” e la critica
In occasione della distribuzione di Effetto notte in versione restaurata per il progetto Cinema Ritrovato al Cinema, proponiamo una silloge di grandi critici nazionali e internazionali che hanno parlato del capolavoro di François Truffaut. Secondo Jean Douchet, “Nell’accingersi a girare Effetto notte, Truffaut non è tanto interessato all’idea di fare un film sulla creazione demiurgica come 8 1/2 di Fellini, quanto piuttosto a cercare il giusto tono per descrivere la vita reale che anima il set di un film”. E secondo Franco La Polla: “Parafrasando Stendhal, diremo che in Effetto notte il cinema è uno specchio portato davanti alla macchina da presa”.
Apologia delle commedie frivole. “Il Diavolo Veste Prada” rivisitato
Gli incarichi folli, l’ambiente lavorativo grassofobico, la vita privata appesa a un filo: le ordalie della giovane assistente sarebbero degne di un thriller psicologico, eppure si travestono di un’apparente frivolezza. È il pregio dei chick flick, termine in teoria derisorio e screditante (“film da femmine” è forse il corrispettivo italiano più accurato) che dovrebbe reclamare una ri-semantizzazione più entusiasta e accogliente: oltre a raccontare una storia di crescita, ambizione e corruttibilità, la sequenza della metamorfosi di Andy — da brutto anatroccolo a impeccabile donna in carriera — ha il primo grande pregio di essere divertente.
“Sciacalli nell’ombra” di Joseph Losey e il noir dell’homme fatal
Sciacalli nell’ombra è un hard boiled di classe, che riprende nell’impostazione iniziale il meccanismo di un capolavoro come La fiamma del peccato: i due amanti, un’eredità da incassare, un marito di troppo, un delitto destinato a essere scoperto. Losey però va oltre la semplice mimesi, e anzi sovverte il ruolo dei personaggi: se nel film di Billy Wilder era la splendida Barbara Stanwyck a progettare l’omicidio del marito coinvolgendo Fred MacMurray in una spirale delittuosa senza fine, qua il motore non è la femme fatale (che di fatale, vedremo, non ha molto), bensì l’uomo.
L’età aurea della sophisticated comedy. “Il ventaglio di Lady Windermere” di Ernst Lubitsch
Parlando di Luci della città, si diceva di come Charlie Chaplin riuscisse a comunicare le emozioni con la sola forza delle immagini. Lubitsch è innegabilmente lontano dallo stile di Chaplin, eppure si percepisce a pelle una simile concezione dell’immagine come potere espressivo, che si traduce nei primi piani sui personaggi e nei dettagli, a cui il regista presta sempre un’attenzione certosina: l’uso delle didascalie è ridotto, e a parlare, come sua abitudine, sono innanzitutto le immagini. Il cinema di Lubitsch è marcatamente estetico, è una gioia per gli occhi, è una bellezza trascendente riconducibile a quello che certi filosofi chiamavano “il bello in sé”.