“Comizi d’amore” e Pasolini poeta viaggiatore

Con Comizi d’amore l’Italia incappa “nell’intelaiatura PPP”: politica, pellicola, poesia. Spinto a tentare le forme espressive con una voracità capace di regnare anche sul favoloso mondo della celluloide, il poeta “corsaro” si ispira al documentario dell’antropologo Jean Rouch e del sociologo Edgar Morin, Chronique d’un été. Un’indagine, la loro, sulla concezione della felicità nei quotidiani parigini, un modo quello di Pasolini per spiare, invece, il cupo conformismo della borghesia italiana che si manifesta con riposte vuote: l’ignoranza per paura. Di questo, egli sa. Ha prove e indizi.

“Vampyr” e il lavoro sul set

Viaggio tra testimonianze e ricostruzioni sul set di Vampyr: “Ci faceva recitare in maniera del tutto naturale. Ci faceva sentire che la storia misteriosa che recitavamo era vera. Ciò richiedeva molte riprese per ogni scena, e ci furono diverse ripetizioni. Quando c’era del dialogo, ogni scena veniva girata tre volte, per la versione francese, inglese e tedesca. Veniva girata muta, e noi pronunciavamo tutte le parole. Il sonoro fu aggiunto più tardi presso gli studi UFA di Berlino, che all’epoca avevano la migliore strumentazione sonora. Dreyer era un uomo molto gentile, ma quando dirigeva i suoi attori diventava molto duro”. (Nicolas de Gunzburg (intervista), “Film Culture”, n. 32, 1964)

“Vampyr” di Dreyer o la verità sullo strano caso di Mister Gray

Dreyer costruisce la storia con una sorta di tableaux vivants, situazioni paratattiche e giustapposte dove la consecutio logica e temporale è soltanto accennata, per dare vita a sensazioni eteree, funeree e sepolcrali – in un certo senso, vedere Vampyr è un po’ come leggere una macabra poesia, dove i rapporti di causa/effetto non seguono la logica comune. Certo, un andamento narrativo c’è, ma la diegesi sembra affidata soprattutto al fluire degli incubi, al magma dell’inconscio, a un precipitare da un mondo all’altro proprio come accade nei sogni, il che fornisce al film un coté altamente evocativo e affascinante.

“Vampyr” e la critica

Uno dei grandi film della storia del cinema, una delle avventure più enigmatiche e coinvolgenti che gli occhi degli spettatori abbiano mai incontrato, e uno dei restauri più preziosi realizzati dalla Cineteca di Bologna. Realizzato da Dreyer nel 1931, all’indomani del capolavoro La passione di Giovanna d’Arco e dell’avvento del sonoro, liberamente ispirato ad alcuni racconti di Sheridan Le Fanu, Vampyr è un film horror, un film fantastico, un film di nebbie, di luminescenze, di poche parole, di terrificanti rumori. Il ritorno del capolavoro in prima visione – grazie al progetto Cinema Ritrovato al cinema – permette di fare il punto sulla fortuna critica del film. 

 

La parte inconscia dello spettatore e del cinema. Il “Mulholland Drive” del linguaggio

Probabilmente parte del fascino magnetico di questo film risiede proprio nella sua capacità di entrare in contatto con la parte più inconscia del nostro essere spettatore, spiazzandoci e al tempo stesso facendoci sentire intimamente compresi, anche grazie all’indulgenza, in numerosi momenti del film, alla suspense e alla tensione erotica, elementi che compiacciono e attivano lo sguardo dello spettatore. Un gioco tra attrazione e spavento gestito con mirabile equilibrio, resa immortale e rilevante per la storia del cinema anche in virtù dell’intima riflessione che compie sul media e sull’industria del cinema.

“Mulholland Drive” e la critica

In occasione della distribuzione di Mulholland Drive (restaurato in 4K), a cura della Cineteca di Bologna, forniamo un’antologia critica – per un film che ha poi negli anni generato ogni tipo di attenzione analitica e interpretativa. Del resto, come ha scritto l’indimenticato Roger Ebert, “È un sogno surrealista in forma di noir hollywoodiano, e meno capiamo più non riusciamo a smettere di guardarlo. Racconta la storia di… beh, non si può concludere questa frase”. E l’invito di David Lynch – “silencio”, fatto pronunciare al più enigmatico dei personaggi – non ha mai voluto significare annullamento del senso, ma solo capacità di ascolto. 

“Mulholland Drive” come summa dell’universo di David Lynch

Per utilizzare un celebre aforisma, Mulholland Drive (2001) è un indovinello avvolto in un mistero all’interno di un enigma. Il che, va detto, si può applicare a ogni opera di David Lynch – e poco importa che si tratti di un lungometraggio, di una serie TV o di un corto – ma è una definizione che calza in modo particolare per alcuni dei suoi più celebri film, dove l’universo onirico, visionario e psichedelico deflagra con tutta la forza possibile. Mulholland Drive, che è finora il suo penultimo film e l’ultimo girato in pellicola, è una summa, una sorta di compendio dell’universo lynchiano, in grado di raggiungere un apollineo equilibrio tra il carattere anti-narrativo di film estremi come Eraserhead e Inland Empire e il racconto più classico che troviamo in noir quali Velluto blu e Cuore selvaggio.

La genesi del mito. “Fino all’ultimo respiro” tra soggetto e spontaneismo cinefilo

Ecco come ci ricorda la genesi del film Alberto Farassino: ” ‘Un mese dopo l’uscita di I quattrocento colpi Godard mi ha chiesto di lasciargli la sceneggiatura di À bout de souffle per farla leggere a Georges de Beauregard. Era una storia che avevo scritto qualche anno prima’. È François Truffaut che ricorda come sia nato il primo lungometraggio di Godard, del quale risulta autore del soggetto mentre un altro amico, Chabrol, vi è accreditato come “consigliere tecnico”. Ma certamente i due nomi già affermati appaiono nei titoli di testa più come amichevole sostegno, e affermazione di una solidarietà di gruppo, che per il contributo realmente prestato. À bout de souffle non solo è, da cima a fondo, di Godard, ma è Godard”.

“Fino all’ultimo respiro” e la critica

L’uscita in sala della versione restaurata di Fino all’ultimo respiro ci consente di proporre – come di consueto nel caso del progetto Cinema Ritrovato al Cinema – un’antologia critica d’epoca e fino ai nostri anni. Affascinante, tra gli altri, l’approccio di Jean-Claude Izzo, grande scrittore di noir, che ha scritto: “Quando ha la meglio sulla poesia la realtà si traduce così: in variazioni sulla morte. Insomma, fino all’ultimo respiro. Non rivedere questo film (per la seconda o la centesima volta) sarebbe, come è stato scritto allora, privarsi di emozioni tra le più belle e forti che il cinema abbia proposto in questi ultimi tempi”.

Dichiarazione d’amore al cinema. “Effetto notte” rivisto oggi

Effetto notte è un’opera di estrema vitalità, e probabilmente Truffaut realizzerebbe questo film anche oggi, in un cinema pervaso dalle tecnologie digitali e immerso in un mercato globalizzato. Questo perché il film è una dichiarazione d’amore per la settima arte oltre ogni ostacolo e narra di una passione che non si arresta mai, neanche mentre si dorme. Sarebbe una magia vedere lo stesso trasporto e sincerità con cui il regista ci ha immerso nel cinema del suo tempo in un film che parli dell’industria di oggi.

“Effetto notte” e la critica

In occasione della distribuzione di Effetto notte in versione restaurata per il progetto Cinema Ritrovato al Cinema, proponiamo una silloge di grandi critici nazionali e internazionali che hanno parlato del capolavoro di François Truffaut. Secondo Jean Douchet, “Nell’accingersi a girare Effetto notte, Truffaut non è tanto interessato all’idea di fare un film sulla creazione demiurgica come 8 1/2 di Fellini, quanto piuttosto a cercare il giusto tono per descrivere la vita reale che anima il set di un film”. E secondo Franco La Polla: “Parafrasando Stendhal, diremo che in Effetto notte il cinema è uno specchio portato davanti alla macchina da presa”.

Apologia delle commedie frivole. “Il Diavolo Veste Prada” rivisitato

Gli incarichi folli, l’ambiente lavorativo grassofobico, la vita privata appesa a un filo: le ordalie della giovane assistente sarebbero degne di un thriller psicologico, eppure si travestono di un’apparente frivolezza. È il pregio dei chick flick, termine in teoria derisorio e screditante (“film da femmine” è forse il corrispettivo italiano più accurato) che dovrebbe reclamare una ri-semantizzazione più entusiasta e accogliente: oltre a raccontare una storia di crescita, ambizione e corruttibilità, la sequenza della metamorfosi di Andy — da brutto anatroccolo a impeccabile donna in carriera — ha il primo grande pregio di essere divertente.

“Sciacalli nell’ombra” di Joseph Losey e il noir dell’homme fatal

Sciacalli nell’ombra è un hard boiled di classe, che riprende nell’impostazione iniziale il meccanismo di un capolavoro come La fiamma del peccato: i due amanti, un’eredità da incassare, un marito di troppo, un delitto destinato a essere scoperto. Losey però va oltre la semplice mimesi, e anzi sovverte il ruolo dei personaggi: se nel film di Billy Wilder era la splendida Barbara Stanwyck a progettare l’omicidio del marito coinvolgendo Fred MacMurray in una spirale delittuosa senza fine, qua il motore non è la femme fatale (che di fatale, vedremo, non ha molto), bensì l’uomo.

L’età aurea della sophisticated comedy. “Il ventaglio di Lady Windermere” di Ernst Lubitsch

Parlando di Luci della città, si diceva di come Charlie Chaplin riuscisse a comunicare le emozioni con la sola forza delle immagini. Lubitsch è innegabilmente lontano dallo stile di Chaplin, eppure si percepisce a pelle una simile concezione dell’immagine come potere espressivo, che si traduce nei primi piani sui personaggi e nei dettagli, a cui il regista presta sempre un’attenzione certosina: l’uso delle didascalie è ridotto, e a parlare, come sua abitudine, sono innanzitutto le immagini. Il cinema di Lubitsch è marcatamente estetico, è una gioia per gli occhi, è una bellezza trascendente riconducibile a quello che certi filosofi chiamavano “il bello in sé”.

L’elegia del clown triste. Charlie Chaplin e “Luci della città”

È un cinema fatto tutto di sguardi e di dettagli, di campi e controcampi, è un uso emotivo delle immagini che si fa pura poesia visiva, sostenuta da una colonna sonora particolarmente malinconica; una poesia che si ripeterà nei numerosi incontri fra i due e tornerà specularmente nel commovente finale, intriso di amore puro e platonico: quando cioè la ragazza ha riacquistato la vista, e capisce l’identità del suo benefattore solo toccandogli la mano. I pannelli coi dialoghi scritti sono ridotti al minimo, e Chaplin manifesta i sentimenti con un uso archetipico e primigenio delle immagini e della musica, confermandosi un genio assoluto della storia del cinema.

Lo spettacolo del noir. “So che mi ucciderai” di David Miller

L’inizio sembra anticipare un certo cinema di Robert Aldrich, cioè quei drammi ambientati nel mondo dello spettacolo – pensiamo a Il grande coltello o Quando muore una stella – con la messa in scena dell’affascinante ma spietato mondo di Broadway. La prima parte ricalca gli schemi del mélo, ma senza mai scadere nel banale, con la narrazione dell’incontro fra i due protagonisti, l’innamoramento, la luna di miele in una splendida villa sul mare, la vita nella loro ricchissima abitazione. Poi, quando entra in scena Gloria Grahame, So che mi ucciderai si incanala più decisamente – ma senza soluzione di continuità – nei suddetti canoni del noir: Irene è la dark lady.

“Trapped” esce dall’oblio. Il noir cult di Richard Fleischer

Fleischer, in soli 79 minuti e con un budget visibilmente ristretto, riesce a creare un riuscito incrocio fra gangster-movie e poliziesco degno di altre opere coeve e più celebri – pensiamo a I gangsters di Robert Siodmak – mettendo in scena vari personaggi e stilemi del genere, con una descrizione minuziosa del milieu criminale. Il merito va ad una sceneggiatura intricata, ricca di doppiogiochisti e colpi di scena, e soprattutto ad una regia quadrata, senza tanti fronzoli né orpelli stilistici ma efficacissima: che sarà poi uno dei tratti distintivi della poetica di Fleischer nei suoi film più celebri, dal suddetto Le jene di Chicago a Sabato tragico, da Frenesia del delitto a Lo strangolatore di Boston.

L’avventurosa storia di come Bolognini produsse Pasolini rifiutato da Fellini

Dalla formidabile cornucopia di L’avventurosa storia del cinema italiano, emerge al ricostruzione a tre voci (Fellini, Pasolini, Bolognini) della vicenda produttiva di Accattone – e di come abbiamo rischiato di non veder realizzato il capolavoro del 1961. “Conoscevo il copione di Accattone ma non avevo mai visto, diciamo, il suo copione di regia. Era una cosa incredibile, commovente. Inquadratura per inquadratura, aveva creato un copione illustrato, un lavoro stupendo che era già il film, chiaro, così come sarebbe stato. Rimasi entusiasta, sbigottito che quella roba non fosse piaciuta. Dissi subito che avrei fatto il possibile per dargli una mano” (Mauro Bolognini).

Il noir e i peccati borghesi. “Il corvo” di Henri-Georges Clouzot

Il cinema di Henri-Georges Clouzot è all’insegna del noir, declinato in varie forme, ma sempre focalizzato sulla psicologia dei personaggi: Il corvo, incentrato su una descrizione al vetriolo della borghesia dove covano misfatti e segreti inconfessabili, è un grande classico del cinema francese, un film dotato di una narrazione e di un linguaggio assolutamente moderni e in grado di parlare agli spettatori di ogni epoca – in fondo, la piccola borghesia cattiva e viziosa non è poi lontana da quella messa in scena anni dopo da un altro maestro come Claude Chabrol.

Quando la slapstick comedy si fa meta-cinema. “La palla n. 13” di Buster Keaton

La palla n. 13 è uno dei film della maturità di Buster Keaton, che trova un equilibrio apollineo fra i canoni della slapstick comedy e una riflessione meta-cinematografica per niente banale. In questo mediometraggio il geniale comico mette in scena alcuni temi ricorrenti della sua poetica, come l’amore impossibile e una continua lotta contro l’ostilità delle circostanze, temi che si esplicano in una serie continua di gag irresistibili accompagnate da una musica vivace e onnipresente. C’è quindi una ragazza (che come tutti i personaggi è senza nome) di cui è innamorato e che cerca di conquistare, frenato dalla timidezza e dalla povertà. E c’è il cattivo di turno, a sua volta innamorato, che cerca di mettere il protagonista in cattiva luce.

Amore e malavita nella Parigi ottocentesca. “Casco d’oro” di Jacques Becker

Casco d’oro è sia un film che è affresco di un’epoca, sia un film dove ci sono i personaggi basilari del noir francese (e non solo): la prostituta, a cui dà vita una bellissima e intensa Simone Signoret in uno dei più grandi ruoli della sua carriera (prima ancora de I diabolici di Clouzot), l’ex galeotto che vuole ricominciare una vita onesta ma è travolto dagli eventi (col volto inconfondibile dell’italo-francese Reggiani), il boss (un grande Dauphin), il protettore, il poliziotto corrotto e tutta una parata di sgherri coi volti giusti. Come accadrà in Grisbì (e parzialmente anche ne Il buco), il cinema noir di Becker è improntato al cherchez la femme, poiché è sempre l’amore per una donna a muovere i personaggi e a guidarli nel drammatico destino, mentre la colonna sonora di Georges Van Parys suona e palpita insieme a loro.