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“Vittoria” nella storia finta di una vita vera
Cassigoli e Kauffman filmano tutto come se fossimo in un documentario, pedinando i personaggi con camera a mano traballante quando sono in movimento, e passando dall’uno all’altro con messe a fuoco incerte durante i dialoghi. E se la convergenza fra documentario e fiction è una caratteristica precipua dei nostri anni, Vittoria ha un sapore ancor più marcato da “storia finta eppure totalmente vera”, con attori che portano in scena un re-enactment di snodi fondamentali della propria vita.
“Linda e il pollo” senza graffi ma con spasso
I registi, il francese Sébastien Laudenbach e l’italiana Chiara Malta, raccontano con allegra esaltazione di una leggiadra uscita dalle norme, e del calore dei legami di quartiere fra palazzoni di periferia. Lo fanno con ampi e sparsi tratti, e definendo tutto mirabilmente col colore (Linda è interamente gialla, la madre arancione, e così via tutti i personaggi), quasi stessimo vedendo i disegni d’infanzia di Henri Matisse.
“La sindrome degli amori passati” e dell’arguzia compiaciuta
La sindrome degli amori passati funziona a sufficienza se preso come semplice divertissement che intrattiene portando lievemente fuori asse lo status quo, ma come critica sociale che pretende di portare riflessioni – nemmeno tanto innovative, in verità – sulla coppia etero contemporanea lascia attorno a sé quel lieve imbarazzo di chi si sforza troppo di sembrare arguto e fuori dagli schemi.
“Quarto potere” oltre la posterità
Welles ragiona sulla società di massa sia relativamente alla sfera pubblica che a quella privata, e una delle sue più grandi intuizioni è proprio preconizzare come non saremmo mai più stati da soli, eppure ci saremmo sentiti sempre più tali. Quarto potere è disseminato di spazi troppo pieni, di persone e cose, o troppo vuoti: sono pieni la redazione del giornale, le feste, i comizi elettorali, vuoti la camera della sua morte, il castello abnorme dove lui e la seconda moglie sopravvivono asfittici, le infinite porte sulle infinite stanze deserte.
“Tropici” di Gianni Amico tra finzione e documentario
È il 1962 quando Gianni Amico si reca per la prima volta in Brasile, sulle tracce di due sue grandi passioni: il Cinema Nôvo e la musica latinoamericana. Ed è nel 1968 che esce, dopo alcuni corti e mediometraggi, il suo primo lungometraggio di finzione, Tropici. Attento alla lezione rosselliniana, Amico porta sullo schermo con intento didattico e politico quello che prima non pareva degno di essere raccontato e posto all’attenzione del pubblico occidentale. E lo fa con pudore, con quel tanto di finzione necessaria a mettere in scena una storia minima esemplare.
Cadaveri da ridere nell’armadio di Fernandel
L’ispirazione arriva da un fatto di cronaca di qualche anno prima, con un’anziana signora morta durante un viaggio in auto, rubata poco dopo insieme al cadavere che il nipote aveva provvisoriamente avvolto in un tappeto. Il primo film da regista di Carlo Rim, all’epoca sceneggiatore attivissimo, è una commedia macabra tutta giocata intorno alla carismatica performance di Fernandel, in cui si ride di gusto, tra equivoci, rincorse e armadi che sembrano moltiplicarsi come in un incubo di Magritte.
“L’incredibile avventura di Mr. Holland” emblema di intrattenimento liberatorio
Attento a cogliere una realtà in cui tutti sognano di diventare ricchi pur sapendo già non ci riusciranno mai, come viene detto espressamente in apertura, L’incredibile avventura di Mr. Holland è un emblema delle Ealing Comedies fra la fine degli anni ’40 e i ’50; una gemma di malcelata tentazione alla sovversione, pronta a registrare i sottili impulsi antisociali che erano nell’aria e a rappresentarli in forma di intrattenimento liberatorio per un pubblico inglese molto provato dal proprio recente passato.
“Rosalie” e il coming of age senza morbosità
Più che dalle parti de La donna scimmia di Marco Ferreri, abusata in ogni modo possibile, siamo vicini a Lezioni di piano di Jane Campion, peraltro con un finale “acquatico” talmente sovrapponibile da far sospettare la citazione voluta. Di Giusto, anche co-sceneggiatrice, porta avanti il suo progetto poetico col giusto bilanciamento fra affermazioni decise e suggestioni intriganti, accarezzando Rosalie con luci morbide e seducenti e disvelandone pian piano il corpo senza morbosità ma con sottile suspense.
“Anselm” e Wenders in titanica confidenza
Anselm di Wim Wenders, dedicato al grande artista contemporaneo Anselm Kiefer, è un vitale slancio titanico-romantico verso il superamento del limite. Girato in 3D con risoluzione 6K, è pensato per immergere completamente lo spettatore nel mondo di Kiefer, nella possanza soverchiante delle sue enormi creazioni, nella matericità inquietante e stratificata di elementi eclettici, dal piombo al grano bruciato.
“Un altro ferragosto” e l’incerto scenario umano
Forse per demarcare una differenza rispetto a tanta altra commedia italiana odierna da cassetta, Virzì filma il tutto con moltissima camera a mano, muovendosi da un gruppo di soggetti all’altro in piani sequenza coreografati, concedendosi il guizzo di alcuni montaggi interni per mettere l’accento su elementi di sfondo. L’effetto finale, però, più che autoriale, sconfina sorprendentemente verso territori mucciniani.
“Caracas” nel rimpianto di una Napoli confusa
D’Amore ricerca in maniera quasi ossessiva una risposta emotiva dello spettatore. Dimostra un buon occhio registico e una mano piuttosto sicura, con l’eredità della serie Gomorra che lo spinge a un approccio visivamente ricercato e di ambizione internazionale, come già ne L’immortale. Il suo stile narrativo è però qui infarcito di troppi punti esclamativi e, per quanto si tratti di un registro omogeneo alla contemporaneità, ciò non giova all’evidente ricerca di una singolarità autoriale.
“Volare” indecisi tra autobiografismo e commedia
Buy ha dichiarato di aver girato Volare sentendosi Carlo Verdone su una spalla, e Nanni Moretti sull’altra (vista la scena dello spot pubblicitario di Daniele Luchetti in Aprile, parrebbe sulla carta un vissuto alquanto ansiogeno). Di fatto, non riesce a trovare la vera quadra fra autobiografismo e commedia, non concedendo abbastanza del proprio lato confessionale al primo, e non curando a sufficienza l’induzione alla risata per una piena riuscita della seconda – con le battute più azzeccate già presenti nel trailer, come troppo spesso accade.
“Una bugia per due” commedia senza retorica
A dispetto dell’insensatezza del titolo italiano (l’originale francese era il ben più incisivo Je ne suis pas un héros), Una bugia per due dimostra notevole chiarezza di visione nel mettere alla berlina il politically correct quando spurgato di ogni significato, ormai utile solo a mantenere delle apparenze e a raggiungere più agevolmente i propri fini non sempre encomiabili. Riflessione quanto mai attuale, portata in scena senza intenti manifestamente didattici o ostentatamente cinici, e proprio per questo alla fin fine più persuasiva.
“Yannick” e il rito sociale del palco
Più che a graffiare il contemporaneo alla Luis Buñuel, Dupieux sembra interessato a burlarsi in maniera leggiadra dei suoi riti di funzionamento, mettendo in luce, in una sorta di dimostrazione per assurdo, il nostro assoluto spaesamento quando questi vengono aboliti. I personaggi principali sono poi sempre perpetuamente mossi da obiettivi strampalati o irrilevanti, lasciandoci però alla fine il dubbio che i nostri possano in fondo esserlo altrettanto.
“Io ti salverò” e le pulsioni sotterranee
A Hitchcock, da buon cattolico, di tutto lo spettro della psicopatologia sembra interessare soprattutto il complesso di colpa: i suoi film più centrati su aspetti psicoanalitici (oltre a questo occorre citare almeno La donna che visse due volte, Psyco e Marnie) sono sviluppati su questa dinamica nonché spesso su un salvatore o una salvatrice animati non tanto da disinteressata carità quanto piuttosto da pulsioni sessuali sotterranee.
“Maestro” tra biopic e storia di un matrimonio
Più intento a essere non banale che davvero originale, Maestro non è quindi la storia di un grande musicista – delle cui creazioni è infuso tutto il film, senza ci venga detto nulla del loro processo creativo – ma la storia di un matrimonio: sviluppare un biopic attorno alla sfera privata è una tendenza dominante del cinema contemporaneo e, non a caso, perfettamente mimetica della celebrity culture odierna, del modo in cui i famosi si raccontano ai comuni mortali su Instagram.
“Comandante” magnetico ma dottrinale
Al cuore della vicenda reale e del film stesso c’è la figura carismatica di Todaro, interpretato da Pierfrancesco Favino alle prese per la seconda volta con il personaggio di un giusto che si ritrova in guerra dalla parte sbagliata della storia, che a chi gli dà del fascista risponde di essere “un uomo di mare”. A dispetto del magnetismo personale dell’attore, De Angelis ha però bisogno di molta voce off e di mostrarcelo nella posizione del loto per tentare di renderne la statura spirituale e morale.
“Nata per te” e per tutte le famiglie
Quante altre volte, per slancio idealistico sulla “giusta causa” da promuovere, abbiamo visto un personaggio farsi bandiera di un obiettivo, senza se e senza ma, affrontando e abbattendo man mano ogni argomentazione contraria: qui Luca, fervente cattolico, ammette di ritenere in cuor suo che due genitori siano meglio di uno solo single; non solo, la costruzione del suo rapporto con Alba non ricalca lo schema difficoltà-superamento alla Kramer contro Kramer, ma si giova di un provvidenziale aiuto dei parenti ed è un lavoro mai finito, esattamente come accade in qualsiasi famiglia.
“Un sterminata domenica” dentro lo specchio delle immagini
In uno scenario fra Pasolini e Caligari, Parroni sembra tornare alla nouvelle vague per raccontare l’insofferenza giovanile allo status delle cose. Al di là di alcune affettazioni, la cifra stilistica c’è e passa attraverso una forma libera nell’intenzione e studiatissima in concreto: predominanza assoluta della macchina a mano, inquadrature grezze e tremolanti, montaggio frammentato, un occhio molto buono per l’utilizzo di punti di ripresa inusuali ma efficaci.
“Il più bel secolo della mia vita” e il road movie degli opposti
A dispetto del titolo banalotto, uguale a stormi di altre commedie italiane che tentano di sedurre il pubblico a colpi di superlativi, Il più bel secolo della mia vita merita dunque certamente una visione: nulla di inedito ma tutto molto ben centrato e, nella prima parte in particolare, anche parecchio divertente. Niente male per una commedia che porta avanti un tema sociale col giusto bilanciamento fra serietà e facezia.