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“All We Imagine as Light” in egual misura tra desiderio e solitudine

All We Imagine as Light, secondo film della regista Payal Kapadia, è una delle migliori pellicole dell’anno. Nonché una delle più originali degli ultimi anni, premiata meritatamente con il Grand Prix Speciale all’ultimo Festival: è una storia universale che mette al centro della sua indagine in egual maniera il desiderio e la solitudine, attraverso la parabola di tre donne che, messe da parte le relative differenze, stringono un’alleanza che va al di là della parola “amicizia”.

“Leurs enfants après eux” realistico e inafferrabile

Istintivo come il battito del cuore, il film è un melodramma su un’Europa in costante evoluzione non così lontana dall’attuale, frammentario e ribelle, come i prodotti che ambiziosamente desiderano diventare inni generazionali, senza però abbandonare un’evidente perfezione formale . Attingendo a piene mani nella libertà narrativa concessa dal romanzo di origine, Leurs enfants après eux è un’opera insieme realistica e inafferrabile.

“Quattro figlie” e il futuro che rompe col passato

Hend Sabri, i lisci capelli pettinati dall’acconciatrice, un ultimo tocco di rossetto, si riscopre agitata al pensiero di incontrare dal vivo una donna che ha deciso di raccontare la sua vicenda, ancora una volta in tono risoluto, sorgendo con l’ostinazione della ragazza ribelle che picchiava ogni uomo che le si avvicinasse. Almeno fino alla comparsa di colui che, dopo aver eluso sorveglianza e fortezza, fece breccia nel suo cuore. Si chiama Olfa, non soffre di alcun timore reverenziale.

“Hit Man” e la trasformazione della maschera

Qui non è soltanto l’identità a rivestire una capitale importanza nell’evoluzione della storia raccontata in Hit Man, liberamente tratto da un articolo di Skip Hollandsworth apparso sul Texas Monthly nel 2001. Difatti, immersi in un presente frammentato e incerto, Gary Johnson e i suoi compagni di sventura, criminali da strapazzo compresi, individuano soprattutto nel “cambiamento”, nella “trasformazione” la cifra esistenziale, la bussola da utilizzare per farcela. Poiché, ogni giornata richiede la sua specifica performance, la sua maschera.

“La conversazione” e la maschera teatrale del sogno americano

Non solo denuncia politica e apologo morale, La conversazione è un gioiello della New Hollywood. Sviluppato indizio dopo indizio attraverso la forza drammatica di un volto anodino e significativo al contempo, in grado di aggiungere malinconia alla maschera teatrale del sogno americano, e con l’affascinante lavoro di Walter Murch, montatore e tecnico del suono, il cui contributo si è dimostrato fondamentale nel conferire sostanza a immagini ed emozioni.

“Il gusto delle cose” tra poesia di vita e danza del gusto

Come in Challengers di Luca Guadagnino, dove un match di tennis al meglio dei tre set si rivela l’espediente per discutere di desiderio, qui la cucina è il teatro delle passioni sul palcoscenico del quale si esprimono amore ed emozioni con douceur e misura. Dodin e Eugénie si amano senza dirselo. Costantemente s’attraggono e si cercano attraverso l’influsso delle rispettive abilità e talenti, dichiarando d’amarsi grazie al cibo e la poesia di una vita accompagnata dalla danza delle ore e delle stagioni, che si rincorrono divertendosi all’infinito.

“Il mio amico robot” e la meditazione sull’amicizia

Il film di Berger è una riuscitissima meditazione sulla solitudine, nella quale sia l’ironia sia la melanconia si amalgamano giocosamente, nonché sull’importanza dei legami, vecchi e nuovi. Non solo sul timore di perdere, un giorno come tanti, un’amicizia consolidata, speciale. Sul desiderio di rimanere al fianco del proprio o della propria mate, qualunque cosa accada, contribuendo alla formazione di un rifugio in cui ospitare il motore di una vicendevole serenità.

“Estranei” e la dolcezza come stile

Estranei, sotto gli ingenti strati di inquietudine e amarezza, è la paradossale storia di un ritorno alla vita, condotta con la discrezione e la raffinatezza altrettanto individuabili in ulteriori pellicole recenti, come Past Lives e Aftersun. L’ultima tessera, finemente modellata, di un denso, arricchente mosaico che ci invita a coltivare la gentilezza, a non ritenerla, liquidandola superficialmente, un difetto o una debolezza. Adottando la dolcezza come cifra stilistica.

“How to Have Sex” e la diseguaglianza del consenso

How to Have Sex, seppur contrassegnato da un incipit all’insegna del divertimento, il mezzo che concede alle tre protagoniste di eludere provvisoriamente una generale ansia per il futuro, è un film che richiede agli spettatori di prestare attenzione ai silenzi. Rispetto alla cornice, a emergere quali fondamentali aspetti nell’economia della narrazione, siano studiati e approfonditi o tracciati rapidamente, sono i piccoli gesti, le allusioni, le intuizioni e i non detti.

“The Eternal Memory” ritratto di un amore reale

La vita di Augusto Góngora, giornalista politicamente impegnato nel Cile di Pinochet, e Paulina Urrutia, attrice che, nei primi anni Duemila, ricoprì l’incarico di Ministra del Consiglio Nazionale per la Cultura e le Arti, è stravolta quando a lui viene diagnosticato l’Alzheimer. Giorno dopo giorno, i due affrontano questa sfida a testa bassa, affidandosi al tenero affetto e al senso dell’umorismo. 

“Riabbracciare Parigi” e la consapevolezza della Storia

Ispirato all’esperienza vissuta dal fratello della regista, anche Riabbracciare Parigi, ultimo film di Alice Winocour, non diversamente da due pellicole recentissime, Novembre di Cédric Jimenez e Un anno, una notte di Isaki Lacuesta, prende spunto, pur senza farne esplicitamente menzione, dagli attentati del 13 novembre 2015. Discostandosi, tuttavia, sia dalle opere appena citate, sia da un’importante raccolta di articoli quale V13, attraverso cui Emmanuel Carrère ha riunito da una parte le testimonianze offerte da superstiti e parenti delle vittime, dall’altra illustrato la follia alla base del piano concepito dagli imputati.

“Mes petites amoureuses” di fronte all’illusione d’amore

Eustache, inaugurando un discorso che avrebbe proseguito e ulteriormente radicalizzato col successivo Une Sale Histoire (1977), collocandosi tra il rigore di Robert Bresson e l’inadattabilità esistenziale proposta in L’Enfance Nue di Maurice Pialat, dispiega la sua “verità” intrecciando sguardo e corpo. Daniel, in assenza di una madre affettuosa, abbandona gradualmente l’innocenza vissuta nella natia Pessac per meditare sul suo posto nel mondo.

“Ohikkoshi” e il nostro posto nel mondo

Venezia Classici riporta alla luce la storia di una figlia unica che tenta di aprirsi la sua strada, che incontra l’ignoto cercando la forza indispensabile per continuare ad affrontarlo.  Ohikkoshi è una meditazione straordinariamente suggestiva sull’infanzia. Incentrato sulla crescita emotiva di una ragazza sensibile, si rivela un racconto peculiare sia per il valore di profondo affresco su un’età inquieta che per l’adozione d’una formula narrativa deliberatamente surreale che le conferisce l’andamento di un manifesto liberatorio

“La caza” e il conflitto senza uniformi

Per l’asprezza satirica, per la violenza, prima suggerita come se fosse una finezza da dosare con attenzione, poi brutale, il film suscitò dibattiti e sollevò polemiche. Tanto da indurre il regista Manuel Gutiérrez Aragón a dichiarare con forza che esista un cinema spagnolo prima dell’uscita del film e un altro dopo. Tuttavia, oltre ogni classificazione, viste le pochissime risorse impiegate per girarlo, è la storia di un confronto. In cui si mescolano anarchicamente realtà e fantasia, corpi e fantasmi, azione e immobilità, in cui si combatte un conflitto senza uniformi.

“Essere e avere” e la contemplazione dell’insegnamento

Racconto delicato e commovente dell’ultimo anno d’insegnamento di Georges Lopez, Essere e avere, ambientato nel piccolo comune di Saint-Étienne-sur-Usson, segue le vicende del maestro, in procinto di andare in pensione, e dei suoi tredici studenti. Apparentemente invisibile dietro la macchina da presa, Philibert, come un etologo à la Konrad Lorenz, fin dall’inizio, delinea una rassomiglianza tra il comportamento degli animali e degli esseri umani, familiarizzando con l’ambiente circostanze.

“Ritorno a Seoul” e la vita così com’è

Inserito nella rosa dei migliori quindici film internazionali, ma non presente nella cinquina finale agli ultimi Premi Oscar, Ritorno a Seoul, secondo lungometraggio del cambogiano Davy Chou ispirato alla reale esperienza dell’amica Laure Badufle, è la storia di Freddie. Del suo viaggio in Corea del Sud, intrapreso nel tentativo di trovare i genitori biologici. Della ribellione inflessibile alle abitudini mai condivise coltivate dal popolo che non l’ha voluta. Del rifiuto della sofferenza e di un padre contemplato di rado, in un passato brulicante di demoni non sopiti.

“Il mondo sul filo” 50 anni fa

Il mondo sul filo, tratto dal romanzo Simulacron 3 di Daniel F. Galouye e girato in quarantaquattro giorni, durante una pausa nella produzione di Effi Briest, rappresenta l’unico film di fantascienza di Fassbinder: prigioniero nella vita reale di una parabola simile alla sorte del suo Vollmer, intellettuale prolifico e sensibile, anche qui capace di far emergere il suo cinema, riuscendo ad andare ben oltre la semplice distopia.

“Leila e i suoi fratelli” dentro il teatro di guerra domestico

Da una parte simile ad altre eroine struggenti, quali Neeta e Keiko, protagoniste rispettivamente di La stella nascosta (Ritwik Ghatak, 1960) e Quando una donna sale le scale (Mikio Naruse, 1960), Leila, interpretata non per nulla da Taraneh Alidoosti. Leila, consapevole ciononostante delle fratture interne alla famiglia e spettatrice tutt’altro che distaccata dei denti di una morsa che stringe da ogni lato. Dall’altra Esmail, coltivatore di un sogno irrealizzabile e di una speranza dai giorni infiniti, con gli ornamenti e i tessuti dell’attesa. Il teatro di guerra, un’umile casa che scotta di febbre, sdraiata anch’essa in un torpido dormiveglia.

“Empire of Light” e l’arte di contenere l’angoscia

Accantonata la prospettiva di manifestarsi sotto forma di dichiarazione d’amore, qui il cinema assume le sembianze di una fune sopra l’abisso. Un’arte in grado di contenere le angosce dello spirito, alternando l’eccitazione vertiginosa generata dalle sue storie immortali al candido conforto di una carezza. Nonostante non sia immune dall’imperfezione, scorre in Empire of Light la tenera sincerità di chi si prodighi a rinnovare una fiducia profonda, disinteressata a chi si senta perduto.

“Great Freedom” per il diritto senza retorica

Great Freedom è contemporaneamente il ritratto di un uomo inconsapevolmente iniziatore di una resistenza silenziosa e una tenera esplorazione della sessualità maschile nella Germania postbellica. Alternandosi tra punti di vista differenti – un po’ voyeur, un po’ sociologo – e stacchi temporali, Meise e lo sceneggiatore Thomas Reider non perdono mai il controllo, bandendo la retorica e dosando accuratamente l’uso della parola diritto senza risultar predicibili.