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“Mes petites amoureuses” di fronte all’illusione d’amore
Eustache, inaugurando un discorso che avrebbe proseguito e ulteriormente radicalizzato col successivo Une Sale Histoire (1977), collocandosi tra il rigore di Robert Bresson e l’inadattabilità esistenziale proposta in L’Enfance Nue di Maurice Pialat, dispiega la sua “verità” intrecciando sguardo e corpo. Daniel, in assenza di una madre affettuosa, abbandona gradualmente l’innocenza vissuta nella natia Pessac per meditare sul suo posto nel mondo.
“Ohikkoshi” e il nostro posto nel mondo
Venezia Classici riporta alla luce la storia di una figlia unica che tenta di aprirsi la sua strada, che incontra l’ignoto cercando la forza indispensabile per continuare ad affrontarlo. Ohikkoshi è una meditazione straordinariamente suggestiva sull’infanzia. Incentrato sulla crescita emotiva di una ragazza sensibile, si rivela un racconto peculiare sia per il valore di profondo affresco su un’età inquieta che per l’adozione d’una formula narrativa deliberatamente surreale che le conferisce l’andamento di un manifesto liberatorio
“La caza” e il conflitto senza uniformi
Per l’asprezza satirica, per la violenza, prima suggerita come se fosse una finezza da dosare con attenzione, poi brutale, il film suscitò dibattiti e sollevò polemiche. Tanto da indurre il regista Manuel Gutiérrez Aragón a dichiarare con forza che esista un cinema spagnolo prima dell’uscita del film e un altro dopo. Tuttavia, oltre ogni classificazione, viste le pochissime risorse impiegate per girarlo, è la storia di un confronto. In cui si mescolano anarchicamente realtà e fantasia, corpi e fantasmi, azione e immobilità, in cui si combatte un conflitto senza uniformi.
“La conversazione” e la maschera teatrale del sogno americano
Non solo denuncia politica e apologo morale, La conversazione è un gioiello della New Hollywood. Sviluppato indizio dopo indizio attraverso la forza drammatica di un volto anodino e significativo al contempo, in grado di aggiungere malinconia alla maschera teatrale del sogno americano, e con l’affascinante lavoro di Walter Murch, montatore e tecnico del suono, il cui contributo si è dimostrato fondamentale nel conferire sostanza a immagini ed emozioni.
“Essere e avere” e la contemplazione dell’insegnamento
Racconto delicato e commovente dell’ultimo anno d’insegnamento di Georges Lopez, Essere e avere, ambientato nel piccolo comune di Saint-Étienne-sur-Usson, segue le vicende del maestro, in procinto di andare in pensione, e dei suoi tredici studenti. Apparentemente invisibile dietro la macchina da presa, Philibert, come un etologo à la Konrad Lorenz, fin dall’inizio, delinea una rassomiglianza tra il comportamento degli animali e degli esseri umani, familiarizzando con l’ambiente circostanze.
“Ritorno a Seoul” e la vita così com’è
Inserito nella rosa dei migliori quindici film internazionali, ma non presente nella cinquina finale agli ultimi Premi Oscar, Ritorno a Seoul, secondo lungometraggio del cambogiano Davy Chou ispirato alla reale esperienza dell’amica Laure Badufle, è la storia di Freddie. Del suo viaggio in Corea del Sud, intrapreso nel tentativo di trovare i genitori biologici. Della ribellione inflessibile alle abitudini mai condivise coltivate dal popolo che non l’ha voluta. Del rifiuto della sofferenza e di un padre contemplato di rado, in un passato brulicante di demoni non sopiti.
“Il mondo sul filo” 50 anni fa
Il mondo sul filo, tratto dal romanzo Simulacron 3 di Daniel F. Galouye e girato in quarantaquattro giorni, durante una pausa nella produzione di Effi Briest, rappresenta l’unico film di fantascienza di Fassbinder: prigioniero nella vita reale di una parabola simile alla sorte del suo Vollmer, intellettuale prolifico e sensibile, anche qui capace di far emergere il suo cinema, riuscendo ad andare ben oltre la semplice distopia.
“Leila e i suoi fratelli” dentro il teatro di guerra domestico
Da una parte simile ad altre eroine struggenti, quali Neeta e Keiko, protagoniste rispettivamente di La stella nascosta (Ritwik Ghatak, 1960) e Quando una donna sale le scale (Mikio Naruse, 1960), Leila, interpretata non per nulla da Taraneh Alidoosti. Leila, consapevole ciononostante delle fratture interne alla famiglia e spettatrice tutt’altro che distaccata dei denti di una morsa che stringe da ogni lato. Dall’altra Esmail, coltivatore di un sogno irrealizzabile e di una speranza dai giorni infiniti, con gli ornamenti e i tessuti dell’attesa. Il teatro di guerra, un’umile casa che scotta di febbre, sdraiata anch’essa in un torpido dormiveglia.
“Empire of Light” e l’arte di contenere l’angoscia
Accantonata la prospettiva di manifestarsi sotto forma di dichiarazione d’amore, qui il cinema assume le sembianze di una fune sopra l’abisso. Un’arte in grado di contenere le angosce dello spirito, alternando l’eccitazione vertiginosa generata dalle sue storie immortali al candido conforto di una carezza. Nonostante non sia immune dall’imperfezione, scorre in Empire of Light la tenera sincerità di chi si prodighi a rinnovare una fiducia profonda, disinteressata a chi si senta perduto.
“Great Freedom” per il diritto senza retorica
Great Freedom è contemporaneamente il ritratto di un uomo inconsapevolmente iniziatore di una resistenza silenziosa e una tenera esplorazione della sessualità maschile nella Germania postbellica. Alternandosi tra punti di vista differenti – un po’ voyeur, un po’ sociologo – e stacchi temporali, Meise e lo sceneggiatore Thomas Reider non perdono mai il controllo, bandendo la retorica e dosando accuratamente l’uso della parola diritto senza risultar predicibili.
“Anche io” tassello nel puzzle del dibattito
Anche io non entrerà, magari, nella storia del cinema. Certo, nei prossimi mesi, non vincerà premi – sul punto, è attesa l’uscita di Women Talking di Sarah Polley. Non mancherà chi lo riterrà un prodotto appositamente realizzato per permettere a Hollywood di ripulirsi la coscienza. Ciononostante, rappresenta un tassello nel puzzle, calibrato sobriamente, soprattutto, accessibile a chiunque si ritenga non toccato/a dalla serietà del tema dibattuto.
“Close” tra empatia e opacità
Nonostante l’assenza di un vero discorso sull’elaborazione del lutto, sulle aspettative di una società intimamente intollerante, il regista fiammingo mantiene una notevole sensibilità nello scegliere i suoi interpreti. Pur rivelandosi un opaco affresco dell’adolescenza, per quanto ben confezionato, le lacrime a fior di pelle di Léo, durante un assolo di oboe eseguito dal fedele Rémi, restano un dettaglio di assoluta finezza.
“El Planeta” dentro le mura della casa
Si tratta dell’esordio al cinema dell’artista e influencer Amalia Ulman El Planeta. Nonostante l’incipit prenda le mosse, curiosamente, dal cortometraggio, candidato al Premio Oscar, 7:35 de la mañana, il film è caratterizzato da una struttura episodica fin troppo invadente, peraltro evidenziata da una tipologia di transizione che, considerandone l’elementarità, rischia di pregiudicarne i pregi, a discapito della tangibile naturalezza con cui le due protagoniste (Ale e Amalia Ulman, madre e figlia anche nella realtà) affrontano un intrico di difficoltà quotidiane via via sempre più angoscianti e ineludibili.
“Il momento della verità” tra uomini e bestie
Dell’eredità di Francesco Rosi, audace autore del quale ricorre il centenario della nascita, si è già ampiamente dibattuto in altre sedi. Qui, vorremmo ricordarlo attraverso uno dei suoi film meno conosciuti. Imperfetto, certamente, non esente da una velata tendenza al calligrafismo, a detta di diversi critici dell’epoca, in determinati passaggi, eppure incredibilmente moderno, Il momento della verità, una storia in bilico tra finzione e documentario, interessata in primis all’ascesa, in secondo luogo alla successiva declassazione di un torero da istituzione, stupisce per una capacità di raccontare la realtà con precisione cronachistica.