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“Assassinio a Venezia” e la metafisica calcolata

L’eccessiva centralità di Branagh si avvertiva già nei primi episodi, non è di certo una novità. Qui però emerge in maniera troppo evidente quanto l’unico a divertirsi sia proprio il regista stesso. C’è uno scollamento importante tra l’ambizione potenziale del film e la resa sul grande schermo. Branagh si aggrappa in maniera ferrea a un immaginario antico, superato, con inquadrature insistentemente oblique, tagli di luce che vorrebbero rimandare ai misteri delle sedute spiritiche o primi piani mirati a inchiodare i personaggi come fossero streghe da condannare al rogo medievale

“Oppenheimer” speciale I – Classico e contemporaneo

Oppenheimer è un film classico ma al tempo stesso assai contemporaneo, un lavoro di ricerca quasi filologica su un immaginario che ha contribuito a rendere grande un cinema e una nazione, un racconto su un uomo che ha cambiato le sorti del pianeta. In tal senso è probabilmente il lavoro più autobiografico di Christopher Nolan, un film in cui regista, protagonista e pellicola in sé si relazionano alla stessa maniera e si sovrappongono sull’orlo di una voragine profondissima.

“Ruby Gillman” e i tentacoli del già visto

Tutto è già ampiamente visto, prevedibile e privo di appeal. I detrattori urleranno nuovamente al plagio nei confronti della rivale Pixar (in effetti ci sono diversi punti in comune sia con il Luca (2021) di Enrico Casarosa che con Red (2022, diretto da Domee Shi) ma la questione più deludente di Ruby Gillman non è la sua scarsa originalità nei confronti dei concorrenti, quanto il suo pigro smalto che rende il progetto tra i più dimenticabili e anonimi tra quelli mai realizzati in casa DreamWorks.

“Elemental” o elementare?

Quello che ci sorprende notare oggi, però, è che più di un film elementale, più che una summa delle parti che lo hanno preceduto, Elemental sia un film elementare. Sotto la superficie (sempre impeccabile, ma priva di vere intuizioni che vadano al di là della più che lodevole resa estetica) si percepisce lo sforzo di un regista ingabbiato da una produzione troppo invadente.

“Ant-Man 3” senza gambe e senza slancio

Se tutto fila da un punto di vista progettuale e nell’ottica di un disegno più ampio, resta però indubbio che il film di Peyton Reed non riesca mai a interessare, sorprendere o incuriosire più di così. Se il suo protagonista riesce ad adattare le sue dimensioni in un battibaleno passando da forme pachidermiche a microscopiche, la tensione evolutiva di Ant-Man 3 non è assolutamente all’altezza dimostrando di voler provare a concorrere nel campionato dei più grandi senza avere le gambe, lo slancio e la forma mentis necessaria per farlo.

“The Fabelmans” Speciale I – La fede nel cinema

The Fabelmans è sì un tuffo nella vita del suo regista ma, di conseguenza, si rivela un viaggio all’interno della sua filmografia. Non si contano gli spiritosi omaggi e le rime interne che rimandano ai suoi film precedenti (le biciclette di E.T. l’extra-terrestre, il manuale su come salvare qualcuno che sta annegando, la porta retroilluminata di Incontri ravvicinati del terzo tipo, la guerra di Salvate il soldato Ryan ecc.), questo perché la vita di Spielberg non è stata accompagnata dal cinema, ma perché è essa stessa cinema, una medicina che rende migliore la vita, che le dà più sapore.

“Il gatto con gli stivali 2” spartiacque per l’animazione a venire

Il film è un carnevale di colori, canzoni, luci, montaggio dal ritmo serratissimo, trovate visive in grado di amalgamare e far dialogare perfettamente l’animazione digitale con quella tradizionale. Insomma, è uno dei lungometraggi meglio diretti che siano stati realizzati negli ultimi anni e tutto l’entusiasmo e la grinta visiva espressi dalla prima sequenza incantano non solo per una questione formale, ma soprattutto perché connotano a meraviglia il protagonista e il percorso al quale sarà sottoposto.

“Strange World” usato sicuro

Mentre scorrono i minuti, sembra di sentire il rumore delle pagine del copione che vengono girate dai registi. Tutto è al posto giusto, nulla vibra di emozione, di genuinità. Ogni singola svolta narrativa è ampiamente prevedibile, già vista e quel che convince ancora meno è la poca creatività e fantasia che vengono adoperate per dare vita al fantomatico “strano mondo” del titolo. Il viaggio intrapreso ai confini dell’universo non incanta, non abbaglia. Strange World gioca sulla difensiva, sull’usato sicuro, consapevole di poter comunque vivere di rendita e sedersi sugli allori di un momento produttivamente importante per lo studio.

“Wendell & Wild” tra animazione e cinema delle origini

Selick si prende i suoi tempi. Osserva l’evolversi della società, dei costumi, delle mode, del gusto del pubblico e torna in scena quando sente di avere qualcosa di importante da urlare a gran voce, quando avverte che una generazione di spettatori è cresciuta ed è quindi tempo di proporre loro qualcosa di diverso. Ed è proprio su questa doppia sfida che si basa il suo cinema. Un cinema che si nutre di un ossimoro interno coerente ed efficace, un cortocircuito scivoloso e ambizioso da perseguire, ma che l’autore dimostra sempre di saper controllare con grande sapienza e creatività.

“Lightyear – La vera storia di Buzz” e il nuovo viaggio della Pixar

L’anno luce che dà il titolo al film, se nel primo capitolo di Toy Story serviva a connotare il personaggio come un alieno, qui rispecchia la quintessenza della Pixar: una casa di produzione che un tempo era proiettata anni luce in avanti rispetto la produzione mondiale, ora rischia invece di restare sola e distante, troppo distante, sia da chi, crescendo, ha sempre seguito e condiviso passo dopo passo tale percorso, sia da un pubblico diverso che lungo gli anni è stato poco considerato ma che ora, per andare oltre l’infinito, diventa vitale riportare al centro.

“Bad Roads” e la crisi dei conflitti irrisolti

Bad Roads racconta la paura e la tragedia della guerra del Donbass, ma non le porta mai in scena. Proprio come i luoghi di ambientazioni e i connotati dei personaggi, anche il dramma a cui si fa riferimento è universale e intercambiabile con qualsivoglia conflitto. Non si tratta di un film sulla crisi dell’Europa orientale, quanto sulla crisi umana. Le strade sbagliate presenti nel titolo non sono quelle percorse erroneamente da alcuni personaggi, quanto quelle lastricate da anni e anni di conflitti irrisolti, di odio e tensione repressa che, inevitabilmente, prima o poi vengono a galla.

“Apollo 10 e mezzo” tra biografia e cinefilia

Attraverso un costante e irresistibile flusso di coscienza mascherato da album dei ricordi, Linklater si dimostra uno dei narratori per immagini più intelligenti e consapevoli in circolazione, tanto abile nel dare forma a molteplici dimensioni quanto esperto nel riuscire a navigarle senza mai perdere di vista l’obiettivo ultimo del suo lungo peregrinare. Apollo 10 e mezzo è quindi un tuffo nel passato del regista, sia biografico che cinematografico. Sono tante, infatti, le rime interne alla sua filmografia che Linklater inserisce nel film, in grado di intrecciarsi in maniera fluida e naturale con i ricordi d’infanzia.

“Red” e la svolta della Pixar

Red è un film delizioso e colorato (a cominciare dal titolo, i colori hanno un ruolo ben preciso e mirato lungo tutta la narrazione), divertente e terrificante al tempo stesso (le sequenze di stress sono probabilmente le migliori nell’insieme): un film che non ha paura di fare i conti con argomenti sino a oggi considerati tabù, soprattutto per il cinema d’animazione mainstream, e che proprio attorno a questi costruisce i suoi maggiori punti di forza. Esattamente come Enrico Casarosa, anche Domee Shi sente l’esigenza di guardarsi indietro, di portare in scena la sua memoria, il suo vissuto. 

“West Side Story” come manifesto dell’amore di Spielberg per il cinema

West Side Story è il manifesto più esplicito dell’amore che Spielberg nutre nei confronti del cinema. La sua passione, la sua venerazione per la settima arte è paragonabile a un sacramento. Così, più che ricercare e far dialogare la pellicola con i grandi riferimenti del genere, ha senso provare a interrogarsi sulle rime interne alla carriera del regista. Ce ne sono molte, anche se la più ingombrante resta quel para siempre (pronunciato tra l’altro da Rita Moreno che incarna alla perfezione quel siempre, essendo presente tanto qui che nel West Side Story classico) con il quale si chiudeva anche E.T.. Lì una promessa (ir)realizzabile solo grazie al cinema, qui un miracolo certificabile esclusivamente nel cinema.

“La vetta degli dei” e l’animazione sensoriale tra i ghiacciai dell’Everest

La vetta degli dei vuole, anzi, deve essere un film spettacolare, mozzafiato. Racconta di gesti atletici impensabili per noi comuni mortali, di panorami da contemplare in tutta la loro potenza e di un ambiente naturalistico che forse non riusciremmo nemmeno a immaginare per quanto è distante dal nostro vissuto. Imbert lo sa, ma sa anche che il suo cinema è fatto di tratto e colore. A maggior ragione poiché deve le sue origini al disegno giapponese di Jiro Tanigouchi. Eppure è proprio in questo cortocircuito, in questo ossimoro visivo che si concretizza il valore principale del film. 

“Encanto” e il neo-rinascimento Disney

Encanto sembra inserirsi perfettamente in questa nuova fase che potremmo denominare “Neo-rinascimento”. Dopo l’exploit degli anni Novanta infatti, dove film diventati subito intramontabili hanno risvegliato le sorti di una Disney quanto mai disorientata e confusa, il nuovo millennio è stato probabilmente il periodo più eterogeneo e meno coerente della casa. Tra la crisi creativa dei classici, l’ascesa di Pixar, l’assimilazione delle galassie Marvel e Star Wars e l’arrivo della piattaforma streaming, i classici hanno subito una mancanza di coesione che si è palesata a più riprese.

“Ghostbusters: Legacy” fra autore e blockbuster

Ghostbusters: Legacy si dimostra una delle operazioni più consapevoli, appassionate e sincere prodotto negli anni più recenti. Il film non vuole solamente ammiccare a un modello che ha fatto Storia, a un’epoca che non c’è più. Non si tratta unicamente di una grande operazione commerciale guidata dall’algoritmo che conosce tutte le regole del caso per attirare a sé i soldi di una determinata fanbase. Legacy è invece un film di Jason Reitman, in tutto e per tutto, che non ha paura di confrontarsi con il suo creatore (biologico e filmico) senza però evitare di mettersi in luce per quello che è. 

Comizi di cinema. “Futura” e l’Italia di oggi

In Futura, sorta di reportage che vede la collaborazione di tre tra i più interessanti e talentuosi registi italiani contemporanei (Marcello, Rohrwacher e Munzi) si respira, per tutta la durata del lungometraggio, una continua tensione tra passato e futuro. Si tratta di un film elasticizzato in cui la convivenza tra le due dimensioni temporali è di fatto il tema portante del progetto e contemporaneamente la cifra stilistica adottata per espletarlo. I tre autori, singolarmente, girano in lungo e in largo per l’Italia intervistando (senza mai riprendere se stessi) ragazzi dai quindici ai vent’anni in merito alle loro sensazioni riguardo il futuro. Paure, sogni, preoccupazioni, attese: sono questi i temi centrali delle domande poste dagli autori e su cui molti adolescenti avranno di che dissentire.

“Days” e lo specchio della storia del cinema

Tutto scorre in una dolce sinfonia perfettamente orchestrata da un regista ormai non più giovanissimo che si trova, ancora una volta, a fare i conti con un cinema anacronistico, fuori tempo massimo. Un regista al quale però è sufficiente inquadrare un ragazzo che lascia risuonare un carillon nel cuore di una città per esprimere una potenza cinematografica che, ancora oggi, sembra avere ben pochi rivali. E se poi il brano musicale non è altri che il tema principale Luci della ribalta (1952), allora sembra davvero di assistere alla Storia (del cinema) specchiarsi in se stessa.

“Beckett” e la lezione del cinema politico americano

A sei anni di distanza dal suo precedente film, Ferdinando Cito Filomarino continua a insistere sul tema dell’identità. Proprio come in Antonia (biopic dell’artista Antonia Pozzi in cui il titolo era nuovamente il nome di una persona), anche in Beckett la cornice narrativa è solo un pretesto per lasciare spazio a una ricerca individuale. Sposando uno sguardo sporco, grezzo e frenetico, la mise en abyme di Beckett funziona per condurre il pubblico sulla “messa in abisso” del protagonista. Lo sforzo di provare ad aggiornare la lezione del cinema politico tanto caro soprattutto all’industria statunitense degli anni Settanta si sente e risulta una scelta indovinata.